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Pippo Delbono. Amore, carne e tanto disordine

Amore e Carne di Pippo Delbono approda in Romania. Recensione

 

foto di Paola Zedda
foto di Daniela Zedda

Ne parliamo solo adesso, in occasione della seconda replica francese di questo mese – dopo Charleville-Mézières ora a Beauvais – ma la visione di questo lavoro ce la portiamo nel taschino da più di un mese. Si tratta di Amore e Carne, spettacolo-concerto del 2006 che Pippo Delbono ha avuto occasione di presentare al pubblico rumeno nel sontuoso spazio del Teatro Ungherese di Cluj, casa del festival Interferences. La bella città a pochi chilometri dal confine ungherese e ucraino è diventata nido di atterraggio dei lavori più disparati, nei pochi giorni in cui l’abbiamo visitata abbiamo intercettato molte compagnie locali (a Cluj è radicata una minoranza di lingua ungherese) e alcune prestigiose ospitalità come Declan Donellan e il suo Ubu Roi. La bandiera italiana ha sventolato per Babilonia Teatri, per il lavoro del giovane Groupe Presence dello IUAV di Venezia e, appunto, per l’ormai immancabile Delbono, come pochi altri artisti (forse solo Romeo Castellucci ed Emma Dante) alfiere del nostro teatro sullo scacchiere straniero.

Proviamo a immaginare la situazione. Orario fissato alle 21, platea gremita. Se pure va detto che la maggior parte degli eventi non si è distinta per una svizzera puntualità, nessuno di quelli a cui abbiamo assistito si era permesso di ritardare di trentacinque minuti, di cui una ventina abbondante trascorsa a poltrone già occupate. Alle 21.35 Pippo Delbono fa capolino dalle quinte con il suo consueto aspetto trasandato, un mazzo disordinato di fogli stretto nella mano; di lì a poco lo segue il violinista Alex Balanescu, che siede all’altro capo del palco vuoto. Al pubblico locale – la cui componente internazionale ha comunque spinto il festival a provvedere a sottotitolare in inglese – Delbono spiega a braccio in italiano la decisione di non servirsi di sopratitoli ma di aver, all’ultimo momento, trovato un’interprete simultanea. Non fosse che la giovane, nascosta in regia, non riceve possibilità di inserirsi nel fiume di parole con cui l’attore racconta la genesi dello spettacolo e si lancia in una lunghissima barzelletta, per poi passare la palla a Balanescu, il quale ne snocciola un’altra interminabile in rumeno, lasciando stavolta a bocca asciutta la minoranza internazionale in platea. L’atteggiamento diretto, sprezzante e derisorio con cui Delbono tratta la povera interprete (della cui competenza si potrebbe in effetti dubitare, ma che di certo non è stata messa nell’agio che occorre per una traduzione simultanea) prosegue anche quando, e sono ormai le 22 passate, lo spettacolo finalmente comincia.

foto ufficio stampa
foto ufficio stampa

Più volte i sopratitoli (che poi in fondo vengono usati) fanno avanti e indietro per tentare di stare al passo con l’attore che cambia continuamente il copione, aggiunge, toglie, taglia e non manca di innervosirsi perché lo staff non è in grado di supportarlo. Non mancano nemmeno frecciatine del tipo: «Siamo in Romania, ma in un teatro ungherese, si traduce in inglese ma nessuno capisce l’italiano: qui non si sa più che lingua parlare», mentre scorre quello che a tutti gli effetti è un disordinato montaggio di versi di Pasolini, di Artaud, di Rimbaud e di Delbono stesso, senza che una struttura drammaturgica si occupi di tirare qualche freno. Versi indubbiamente potenti, tra cui quelli originali riescono anche a non sfigurare, con il loro impetuoso carico di “amore e carne”, appunto; ma la declamazione è tutta improntata alle stesse trite formule delboniane, con la voce che spezza la ripetizione ossessiva di una strofa in un ululato a volte anche sgradevole e il corpo che – sui lunghi canoni che Balanescu infioretta dal vivo su pompose basi registrate – si lascia andare a una danza dinoccolata, preteso simbolo di chissà quale estasi dionisiaca. E il pubblico? Raggelato da un inizio davvero indisponente, scivola poi dentro una sorta di ipnosi di massa che lascia passare un’attitudine davvero stucchevole, per poi esplodere in un applauso fragoroso. Se altri recenti lavori di Pippo Delbono, vedi Orchidee, dimostrano – a fronte di un contenuto spesso naïf e superficiale in una continua altalena tra il particolare biografico e l’universale umano – a questa forma concerto non manca del tutto l’anima di una operazione poetica, ma la dignità minima dell’atto teatrale. E pure all’artista ligure va di certo riconosciuta una potenza quasi sciamanica nella raccolta dell’attenzione.

foto di ufficio stampa
foto di ufficio stampa

Come già ci è capitato di constatare (e qui anche di annotare), nei confronti di artisti che godono di una fama tanto chiara, più che porsi come analisti di estetiche e cercatori di canoni in questo o quel linguaggio è forse utile aprire questioni che più da vicino riguardano, potremmo chiamarlo, il “modello di fruizione”. L’esperienza rumena diviene dunque il valore evidenziato da un termometro speciale, l’internazionalità. Se qui in patria il rischio di certe estetiche ormai incastonate dentro linguaggi che erano nati come tentativo di liberazione dai canoni è di accompagnare per mano lo spettatore all’interno di una mappa d’emozioni fin troppo ben definita, al cospetto di un pubblico internazionale la questione si modifica, in un certo senso si complica. Quel pericolo di adesione incontrollata pare provocato da un’aspettativa sviluppata da parte del pubblico nei confronti di una possibile partecipazione alle tematiche (ancor più che alle forme), aspettativa che l’artista non si azzarda a disattendere e che in un contesto internazionale si carica di altre sovrastrutture, una su tutte la componente esotica.

Come se da Delbono ci si aspettasse proprio quel disordine, quell’imprevedibilità, quella – diciamolo – sciatteria. Quella stessa sera abbiamo avuto occasione di scambiare opinioni con spettatori portoghesi, bulgari, francesi, rumeni e russi, di età diverse e di diversi gradi di separazione dal mondo teatrale. Le due risposte più comuni sono state anche due antipodi: un silenzio imbarazzato, come se non ci si potesse azzardare a disprezzare apertamente, e una decisa risposta: «Mi commuove perché racconta com’è davvero l’Italia, come si fa teatro in Italia!». È davvero questa l’Italia, davvero questo l’unico teatro che riusciamo a portarci in valigia?

Sergio Lo Gatto
Twitter @silencio1982

Teatro Vittoria-gennaio 2015

visto al Teatro Ungherese di Cluj (Romania), in dicembre 2014

AMORE E CARNE
uno spettacolo-concerto di Pippo Delbono
con Pippo Delbono e Alexander Balanescu (violino)
produzione Compagnia Pippo Delbono

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Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto è giornalista, critico teatrale e ricercatore. È stato consulente alla direzione artistica per Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale dal 2019 al 2022. Attualmente è ricercatore presso l'Università degli Studi Link di Roma. Insegna anche all'Alma Mater Studiorum Università di Bologna, alla Sapienza Università di Roma e al Master di Critica giornalistica dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma. Collabora alle attività culturali del Teatro di Roma Teatro Nazionale. Si occupa di arti performative su Teatro e Critica e collabora con La Falena. Ha fatto parte della redazione del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha scritto per Il Fatto Quotidiano e Pubblico Giornale, ha collaborato con Hystrio (IT), Critical Stages (Internazionale), Tanz (DE), collabora con il settimanale Left, con Plays International & Europe (UK) e Exeunt Magazine (UK). Ha collaborato nelle attività culturali e di formazione del Teatro di Roma, partecipato a diversi progetti europei di networking e mobilità sulla critica delle arti performative, è co-fondatore del progetto transnazionale di scrittura collettiva WritingShop. Ha partecipato al progetto triennale Conflict Zones promosso dall'Union des Théâtres de l'Europe, dove cura la rivista online Conflict Zones Reviews. Insieme a Debora Pietrobono, è curatore della collana LINEA per Luca Sossella Editore e ERT. Tra le pubblicazioni, ha firmato Abitare la battaglia. Critica teatrale e comunità virtuali (Bulzoni Editore, 2022); con Matteo Antonaci ha curato il volume Iperscene 3 (Editoria&Spettacolo, 2018), con Graziano Graziani La scena contemporanea a Roma (Provincia di Roma, 2013). [photo credit: Jennifer Ressel]

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