Andrea Rivera debutta con Ho risorto! al Teatro Vascello. Recensione
Era il 2007 e in Italia era l’anno di un traballante governo Prodi. Nei primi mesi furono due i momenti di particolare interesse sociale: grazie all’apporto di dibattito interno ed esterno al governo furono varate delle misure di dialogo con il movimento No TAV, ma in contemporanea il fronte dello scollamento tra la sinistra e la propria base si spostava a Vicenza dove in 200.000 accorsero a sostenere il comitato per impedire la costruzione di una base NATO nei pressi dell’Aeroporto Dal Molin. L’attenzione al dibattito sociale era dunque molto alta quando a Roma, al “concertone” del Primo Maggio, organizzato come sempre dalle tre sigle sindacali CGIL CISL e UIL, uno dei presentatori incaricati di infiammare la piazza tra un artista e l’altro con la chitarra in spalla si lanciò in affermazioni sulla politica italiana e sul Vaticano che fecero tremare in molti e provocarono non pochi imbarazzi. Quell’uomo irriverente si permise il lusso di scomodare poteri forti, con coraggio e passione, costringendo gli organizzatori della grande festa a prenderne le distanze, non senza conseguenze. Si trattava di Andrea Rivera, artista romano che dell’immediatezza e dello sberleffo ha fatto un punto d’onore e una caratteristica inconfondibile.
Ora – e fino al 4 gennaio – se ne sta in scena proprio a Roma in una sala teatrale, il Teatro Vascello, con il suo ultimo lavoro dal titolo Ho risorto!, sulla cui locandina è lui stesso a comparire in una raffigurazione del Cristo sulla croce, ma con una espressione furba e ammiccante verso chiunque guardi. Si tratti di cattolici praticanti o atei incalliti, la sua immagine è lampante e ideata per dividere, stimolare a prendere parte.
Questo, dunque, uno dei valori portati da Andrea Rivera nel panorama artistico italiano: che si sia o meno in accordo con le saettanti battute con cui costruisce i propri monologhi, l’impronta lasciata in questi anni è stata quasi sempre visibile, con un segno ben preciso oltre la vaghezza satirica del dileggio del potere.
Eppure, di questo credito pregresso, Rivera oggi in scena in un teatro appare quasi privo, come fosse silenziato da qualcosa che l’avesse addomesticato, attenuato, ma senza che tuttavia si possa parlare di un fallimento: lo spettacolo è un intrattenimento intelligente e trascinante, soltanto pare si sia spostato l’asse della sua espressione.
Ora i monologhi prendono corpo attraverso un molto divertente gioco lessicale che sceglie una tematica e ne compone racconto innervandolo di nomi riconducibili a quello stesso tema, un po’ come faceva tanti anni fa un cantautore anch’esso coraggioso ma dimenticato come Federico Salvatore. Per intenderci: uno dei testi, che porta in luce alcuni rilievi sulla Sanità, è un vortice di termini scientifici, esami clinici, farmaci, vi si rincorre una venatura di senso mai dispersiva in cui il racconto prende forma; allo stesso modo l’unico dialogo – quello iniziale con Matteo D’Incà che per il resto dello spettacolo sarà alle chitarre – sulla schiacciante diffusione della telefonia mobile, è un aggregato di termini che ad essa riconducono, snocciolato per altro mentre i due attori sono stretti da eloquenti sagome di smartphone a grandezza uomo. La struttura dello spettacolo è divisa in quadri e lasciata un po’ all’improvvisazione, per gran parte innescata da una relazione col pubblico quasi eccessiva; l’uso del dialetto romanesco (o almeno la sua connotazione del parlato moderno) esibisce una verve vitalissima che da Ettore Petrolini attraversa l’intero Novecento e si posa sulle spalle del miglior Gigi Proietti; ci sono video a spezzare la cadenza monologante ma coi quali altre volte la scena dialoga fin quasi alla sovrapposizione; ci sono canzoni che Rivera interpreta alla chitarra ancora nel suo modo approssimativo che è diventato una sorta di marchio.
Come ben individua Giulio Sonno su Paper Street, questa non sembra essere una scena fatta per il suo teatro improvviso, picaresco e quasi ebbro. In ogni caso ciascuno dei quadri, tra cui lo spassoso viaggio nei quartieri di Roma che diventano sostantivi, verbi, parti di un discorso impetuoso, non raggiunge la carica detonante cui il comico romano aveva abituato il suo pubblico, come se le passioni o, ancor meglio, le ossessioni da cui era mossa la sua inarrestabile energia, la qualità dissacrante e senza rimedio (anche forse per sé stesso), fossero chiuse in una teca cui è impossibile accedere. Ciò che accade a Rivera in verità rivela una difficoltà creativa – non compositiva – che coglie molti artisti connotati da caratteristiche marcate: come cambia l’arte al mutare dell’artista? Il passo con i tempi da porre sotto la lente di un’analisi critica è lo stesso passo della propria maturazione umana?
Simone Nebbia
Twitter @Simone_Nebbia
Teatro Vascello, Roma – Fino al 4 gennaio 2015
HO RISORTO!
di e con Andrea Rivera
alle chitarre Matteo D’Incà
disegno luci Hossein Taheri
foto Manolo Bernardo
costumi Mathieu Verrecchia
produzione La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello