Una riflessione sul lavoro MA – mains tenant le vide della compagnia Opera, ideato e interpretato da Marta Bichisao per la cura della visione di Vincenzo Schino.
Dopo un esordio alla regia nel 2002, Vincenzo Schino si è unito a Marta Bichisao nel 2005 dando vita – insieme ad altri attori – alla compagnia Opera, che prende il nome della prima vera e propria creazione. Prima di quella c’era stato Voilà, affresco nero e grottesco sostenuto dal progetto Officina Valdoca, con il quale la storica compagnia cesenate diretta da Cesare Ronconi e Mariangela Gualtieri dava voce a certi giovani promettenti artisti. Nel caso di Schino e i suoi quella promessa è andata rafforzandosi negli anni, facendosi in grado – con lavori come Limite e Sonno – di disegnare da zero un linguaggio che, pur se orgogliosamente debitore a certi immaginari iconografici, non possiede esempi realmente omologhi. Questo perché si tratta di un “teatro-non-teatro”. Era Schino stesso, al tempo del primo studio di Opera, a ritenere «il teatro qualcosa di poco importante». Per lui era ed è importante «non sapere, brancolare nel buio». In tale azzardo sta la forza di questa compagnia, un gruppo silenzioso e sotterraneo che dopo anni romani si è trasferito nella campagna umbra, dedito all’artigianato della scena più integrale, quello che non scarta niente, se non forse la parola. Quella, sempre di più, sembra potersene stare a margine. L’esperimento che abbiamo avuto la fortuna di vedere a Terni negli spazi del Caos, raccolti in una sparuta platea in una fredda sera di dicembre, è il primo lavoro – raccontano gli artisti – ideato interamente da Marta Bichisao e che ha origine nella – ormai abbiamo capito – fruttuosa esperienza di Perdutamente. Eco [se ne parlava qui] era il titolo dell’installazione che accoglieva il pubblico in quel Teatro India di Roma in procinto di chiudere per lavori, uno spazio da attraversare liberamente e diviso in due ambienti solo apparentemente separati: un pozzo d’acqua scura nella quale comparivano, come fantasmi, i volti degli altri artisti coinvolti in tremolanti proiezioni e una scatola di legno dentro cui si poteva spiare Bichisao che, da sdraiata, animava con fili invisibili collegati a tutte le articolazioni una marionetta di sottile fil di ferro sospesa in aria.
A quel primo studio se ne sono aggiunti altri e giungiamo ora a vedere un’opera finita, MA – mains tenant le vide (mani che tengono il vuoto). Un ambiente nero pece, illuminato appena da tagli di luce millimetricamente puntati e che mostrano, quasi in trasparenza, una rada raggiera di fili da pesca, tesi a sostenere un peso che ancora non indoviniamo. Nello spazio si muove la performer, che è andata a rovistare nella tradizione del Kabuki giapponese alla ricerca di una specifica «pulizia del gesto, un equilibrio, una lentezza», dice, una perfezione del movimento in grado davvero di concentrare l’attenzione dello spettatore sulla scansione di tempi che paiono interni al suo stesso flusso di sangue. Se l’immaginario iconografico di tali movenze rimanda − dichiaratamente − all’omonimo bronzo di Giacometti che riportiamo qui di fianco, il “ma” è un concetto giapponese intraducibile, fa riferimento a un momento molto preciso che va semplicemente sentito, è uno iato nella musica, ma anche uno «spazio denso» necessario alle più piccole forme di relazione interpersonale per raggiungere una sorta di qualità aurea della presenza che garantisca l’equilibrio.
In scena questa ricerca si traduce in un attraversamento fluido e appuntito dello spazio, nel tentativo (riuscito) di muoversi tenendo in bilico sulla testa una lunga asse di legno che poi verrà con grazia adagiata su due tiranti di filo di nylon, in grado con la lunghezza e la piccola elasticità di generare un moto oscillatorio virtualmente perpetuo.
Come ci è capitato altre volte di fronte ai lavori di Opera, che cosa accada in scena non è chiaro da un punto di vista cosciente, la drammaturgia, potentissima, agisce come agirebbe un tarlo nel vecchio legno, scavando minuscoli fori in uno strato più profondo della coscienza. In un dormiveglia dei sensi testimoniamo il rapporto materiale di distanza e avvicinamento che c’è tra la danzatrice e un cubo di fil di ferro che lei stessa anima passando delicatamente le dita sui fili tesi in diagonale, mentre la stessa marionetta che compariva in Eco fluttua qui da dietro un velatino nero alto sul fondo. Preda di un battito interno accarezzato e schiaffeggiato da un tappeto sonoro davvero sorprendente, che passa da note di piano a violenti accanimenti percussivi su quelle stesse corde, ciò che accade è un totale sdoppiamento del processo cognitivo: mentre vediamo lei muoversi e il cubo deformarsi, qualcosa in noi intuisce la semplicità del gioco – che altro non è che un tirare fili e muovere giunture – eppure il nostro sforzo razionale costruisce un rapporto di vita e di indipendenza al fatto umano e al fatto meccanico, lo associa al senso del titolo e al suo riferimento al concetto di relazione, risolvendo il tutto in un inquietante confronto tra uomo e macchina. Una lotta silenziosa che avviene dentro una struttura tempo completamente riassemblata, non lineare e non proporzionale, come gli astrofisici immaginano il continuum di altre galassie.
Solo grazie a una simile eleganza e a una così netta «cura della visione» è possibile per noi assistere al materializzarsi di un episodio di fantascienza metafisica.
Sergio Lo Gatto
Twitter @silencio1982
visto al Caos, Terni nel mese di dicembre 2014
MA – mains tenant le vide
progetto, coreografia e danza Marta Bichisao
cura della visione Vincenzo Schino
composizioni sonore e live electronics Federico Ortica
scenografia Emiliano Austeri, Antonio Rinaldi, Vincenzo Schino
direzione tecnica Antonio Rinaldi
video Paul Harden, Grazia Genovese
tracce poetiche Florinda Fusco
consulenza coreografica Simona Zaccagno
coordinamento Marco Betti
produzione CRT Milano/Centro Ricerche Teatrali
con la collaborazione di Indisciplinarte/Terni Festival,
si ringrazia Associazione Demetra/Centro di Palmetta, Fibre Parallele Teatro