Oscar De Summa al debutto assoluto con Stasera sono in vena. Recensione
C’è una generazione di artisti che sta facendo sul serio. Sono quelli che hanno deciso di prendere le proprie mani e tenerle alte sopra il viso, di mostrarle sporche di ciò che hanno trovato rimestando sul fondo di un’esistenza intima; sulle mani è fango, lo stesso con cui accarezzeranno il viso di chi vorrà essere toccato; sembra argilla, sembra la materia di una creazione, no, è soltanto fango. Non è materia di finzione, è verità. Non si sta giocando qui, o non più di quel gioco mediato che è l’arte scenica. Questo perché la relazione, a saperla innescare, è paritaria: l’attore è l’esecutore della coscienza di uno spettatore, riduce in scena ciò che di là è solo abbozzato, scontornato da imbarazzi e piccole miserie personali, egli si carica il peso del mondo su due spalle che sappiano fingersi Atlante. Ma non lo sono.
C’è una generazione, ma anche più di una. Abbiamo visto Danio Manfredini denunciare la propria Vocazione, abbiamo visto Michele Sinisi spingere un urlo – Now! – dentro la deformità di Riccardo III, abbiamo visto e si spera sia visto molto più spesso Oscar De Summa che decreta morte e resurrezione di una sopravvivenza – la propria – con Stasera sono in vena, visto al Teatro dell’Orologio al debutto assoluto per Dominio Pubblico e prodotto da La Corte Ospitale.
Si tratta di un monologo, seduto su una cassa amplificata e con solo un microfono di fronte. Eppure, “solo un microfono” non è appropriato. L’attore – di questo testo autore e regista – dà vita a un ispirato canto blues sfruttando ora l’eco ora la voce piana, è felice di cantare, si nota, batte il tempo sul bordo della cassa ed è nel posto più bello che potesse. Sta dicendo: io sono vivo. E non soltanto: sono rimasto vivo. Lo sta dicendo adesso in una sala teatrale. Ma il suo racconto parte prima, molto prima di ora.
Era la Puglia degli anni ’80, quella in cui appena ragazzo il protagonista visse sul confine del proprio futuro, perché ce ne fosse uno: da un lato un gruppo di giovani con ancora tutto da fare a da imparare, la rincorsa di paesaggi assolati di un Salento – o quasi – prima del grande avvento turistico, dall’altro lato la droga e l’alternativa della perdizione, la nascita della Sacra Corona Unita a farsi garante del racket, la disgraziata scelta di privarsi di lucidità perché il dolore di essere, di vivere una terra inospitale che sembra chiudersi su sé stessa, non batta così tanto la vena. Già, la vena. È attraverso l’iniezione nel sangue che l’illusione di cambiarlo e così cambiare anche provenienza, origine, rivela il progetto fallimentare di un’intera schiera di giovani, tra i quali soltanto pochi hanno saputo raggiungere indenni l’epoca successiva, quella di una redenzione non certo poco faticosa.
Ma c’è prima di tutto un racconto, un racconto blues. E allora, cantando di gusto e di cuore grandi classici del rock, prendono corpo come improvvisi i volti e le azioni di personaggi dai caratteri esclusivi, capaci di fornire un quadro eccellente di un modo di vivere fin troppo banalmente categorizzato. Si ride molto, dietro alle peripezie di adolescenti pugliesi in perenne alterazione, eppure ci sono scene di grande intensità tragica, come quella dell’estasi, con la luce arancio-ramata e il movimento come a nuotare nell’aria, o l’amarissima scena di un’astinenza senza limiti di umiliazione.
«Toglierci a noi stessi sottolineando la necessità di appartenerci», questo nel programma di sala, a proposito della sostanza davvero “stupefacente”. Già, perché a stupire è proprio questo paradosso in cui l’appartenenza e la spersonalizzazione convergono in uno stesso piano d’azione, in cui la vita di dopo non è ciò che semplicemente resta ma una liberazione dell’esperienza, la vita di ora che non potrà mai aggirare la vita prima.
Si chiude, uno spettacolo ricco e divertente. Eppure qualcosa non quadra, se non si riesce ad alzarsi dalla sedia, se qualcosa fa rimanere lì come appena intossicati da un respiro imprevisto: è una di quelle sere in cui decade il concetto di “dopoteatro”, in sala resta un silenzio che pesa, sulle vite vissute e quelle perdute. Qualcuno dice sommessamente: «ha lasciato il segno». Su di lui, prima che su di noi. Ma, entrambi, si vedono.
Simone Nebbia
Twitter @Simone_Nebbia
Teatro dell’Orologio, Roma – Novembre 2014
STASERA SONO IN VENA
di e con Oscar De Summa
produzione La Corte Ospitale
nuova produzione 2014