Presentato al Teatro Argentina l’ultimo film di Peter Greenaway, Goltzius and the Pelican Company. Qualche riflessione a cavallo tra i generi
Dopo il CRT di Milano, il Bellini di Napoli e l’Ariston di Mantova, Goltzius & the Pelican Company è giunto al Teatro Argentina; considerando ulteriori luoghi come il Louvre o la National Gallery, le carte in tavola potrebbero apparire ancora più confuse, dal momento che l’ultimo lavoro di Peter Greenaway rientra nel novero delle opere cinematografiche. Ma non di scelte inusitate si tratta, bensì di attestazioni di stima alla poliedricità dell’opera, in grado di fondere temi pittorici e forma filmica intrisi di una teatralità che non troveremmo distante dalle scene contemporanee.
Dopo le vicende di Rembrandt narrate nel film Nightwatching (2007) prosegue il ciclo sui pittori fiamminghi, cui farà prossimamente seguito un lavoro sul celebre e visionario Hieronymus Bosch. In questo caso, protagonista dell’opera è Hendrick Goltzius, pittore e incisore fiammingo operante a cavallo tra Cinque e Seicento; per ottenere il finanziamento del proprio lavoro da parte del Margravio di Alsazia, è costretto a «esibirsi sul palco per potersi esibire sul libro». Il teatro è “l’anticipo”, acconto dal vivo rispetto ciò che sarà sulla carta, garanzia delle tematiche, ma anche intrattenimento a rischio di pericolosa sovrapposizione con la realtà. Alla Pelican Company diretta dallo stesso Goltzius viene affidato il compito di tradurre scenicamente alcune scabrose vicende tratte dall’Antico Testamento nelle quali violenza, sessualità e morale dissoluta – in paradossali moniti – sono i principali motori d’azione. Sul piatto della bilancia si devono aggiungere l’atteggiamento del committente-spettatore e della sua corte, in una estremizzazione voyeuristica al punto di far confondere il piano della messinscena – e quindi della finzione – con quello della verità. Basta un piccolo particolare disturbante, eretico, e il pericolo mimato diventa reale condanna, tanto che alla fine delle sette esibizioni la compagnia verrà decimata.
A colpire di più, al di là del tema trattato con dovizia, è la qualità delle immagini che Greenaway è stato in grado di produrre, in una concezione della bidimensionalità, caratteristica cinematografica contrapposta da sempre alle tre dimensioni del teatro, in grado di oltrepassare se stessa. Riprendendo in maniera originale la tecnica di composizione dello stesso Goltzius che sovrapponeva le stesse incisioni, giocando sul chiaroscuro per dar maggior risalto alla carnalità dei corpi, il regista adotta strategie per moltiplicare le immagini su livelli differenti. Oltre la superficie tematica, e cioè il piano diegetico che include tanto lo spettacolo della compagnia quanto gli spettatori che lo vedono, la componente teatrale emerge nella forma. Alla stregua di una video-istallazione, lo spazio a disposizione si moltiplica (penso ad esempio a certi lavori di Bill Viola in grado di costruire la profondità perduta del video utilizzando diversi schermi per un’unica proiezione), ma a differenza della prima, questo “miracolo” rimane compresso nell’unico schermo: sovrapposizioni di parole scritte a mano, ombre posticce, segni che diventano altro rispetto il loro contesto, prospettive di corpi giacciono in luoghi diversi che sono unico spazio, colori usati come «agenti emozionali» a voler usare le parole del regista.
Assume allora più senso la presenza di un attore come Pippo Del Bono, il quale, assieme ad un’equipe internazionale (nel quale figurano diverse presenze italiane anche per la colonna sonora, suonata “in scena” dal Quintetto Architorti fondata da Marco Robino e Marco Gentile) abita un immenso palcoscenico affidandosi alle indicazioni di Greenaway. La dimensione tipica da film allora sembra allontanarsi ancora di più se si pensa alle particolari “sale” cui facevamo cenno all’inizio. Infatti la scelta voluta per l’Italia da Maremosso e Lo Scrittoio – giovani case di distribuzione milanesi – di spazi teatrali è frutto dell’idea di “far di necessità, virtù”, confrontandosi con l’assenza di una circuitazione regolare, fatta eccezione per la presentazione durante il Festival del Cinema di Roma nel 2012. La difficoltà di fruizione permane e, soprattutto alla luce di un lavoro così complesso e raffinato, la speranza è di una maggiore attenzione; si tenga presente che se da una parte Goltzius and the Pelican Company non è un blockbuster da milioni di visioni, il bacino di pubblico felicemente si allarga dato lo sconfinamento tra i generi. Ci piace concludere con un’affermazione dello stesso Greenaway, la cui istrionica personalità abbiamo avuto modo di assaporare in seguito alla proiezione dell’introvabile Il ventre dell’architetto, storico film dell’87 presentato sempre nelle sale del Teatro di Roma grazie al contributo delle Teche Rai: «si era sbagliato Dio, in principio fu l’immagine, non la parola».
Viviana Raciti
Twitter @viviana_raciti
Visto al Teatro Argentina in Novembre 2014
GOLTZIUS AND THE PELICAN COMPANY
regia di Peter Greenaway