A Taormina la Compagnia Scimone Sframeli festeggia i 20 anni di carriera con una retrospettiva sui loro lavori e una giornata di studi
Esiste un’idea di tempo secondo la quale noi andremmo incontro a ciò che non è ancora accaduto non guardando in avanti ma stando di spalle, come fossimo dei gamberi. Stando a questa prospettiva, allora, la strada percorsa finora sarebbe sempre davanti agli occhi, e rifletterci sopra non equivarrebbe a fermare il flusso degli eventi ma costituirebbe momento naturale di un processo in fieri.
Così come ancora vitali, nonostante i venti anni di carriera appena compiuti, sono Spiro Scimone e Francesco Sframeli, duo messinese al quale proprio per tale ricorrenza è stata dedicata al Palazzo dei Congressi di Taormina un’interessante retrospettiva sulle produzioni, impostesi non solo in Sicilia e in Italia, ma anche e forse soprattutto oltralpe. Niente di strano, se si pensa alla qualità del lavoro che con certo teatro europeo novecentesco ha stretto interessanti punti di contatto: i testi vivono il paradosso di una vacuità piena di senso che deve molto a Beckett ma anche alla quotidianità logorata di Eduardo; la recitazione sorge tra le parole, alla stregua dei nonsense di Pinter; lo spazio d’azione sempre più metafisico ha la paradossalità kafkiana. Scimone e Sframeli, entrambi di formazione accademica milanese, ancor prima della costituzione della compagnia lavorarono insieme, furono diretti, nel corso della loro carriera, da registi come Carlo Cecchi, Valerio Binasco o Gianfelice Imparato.
Prosecuzione naturale questo sodalizio fondato sullo scambio e non su una rigida distinzione dei ruoli, dal 2006 gli spettacoli sui testi di Scimone hanno la firma registica di Sframeli, un suggello ancora più forte a testimonianza di un percordo che, pur non avendo la presunzione della definizione collettiva, libera più sinceramente i margini della condivisione aperta. Forse non è un caso che la loro sia una delle poche compagnie con un nucleo stabile (ricordiamo oltre ai due anche la preziosa presenza di Gianluca Cesale e Salvatore Arena), caso raro in Italia il loro, che porta avanti un “repertorio” non fossilizzando la propria ricerca, anzi, alternando nuove produzioni alle prime. Allora le condizioni si creano per quello sguardo all’indietro, perché alla presentazione dei loro sette spettacoli faccia seguito un’importante giornata di studi (fortemente voluta dalle istituzioni universitarie messinesi) in un complementare atto di riconoscimento, confronto e dibattito. Studiosi del calibro di Marco De Marinis, Gerardo Guccini, Jean Paul Manganaro, Dario Tomasello, direttori di festival come Colline Torinesi o Le Vie dei Festival che negli anni hanno promosso e sostenuto il lavoro della compagnia, ma anche colleghi artisti (isolani e non solo), hanno dimostrato quanto l’esempio di Scimone e Sframeli possa aver contribuito fortemente alla costituzione di quella che nel corso della giornata è stata definita come «nuova scuola siciliana», protagonista di un ritorno intelligente alla drammaturgia del testo visto non come unico dispositivo costruttore della scena, ma come ritrovata parte integrante dello spettacolo.
Durante l’incontro molti gli aspetti interessanti fuoriusciti che non difficilmente avremmo ravvisato nelle opere presentate, dalla solitudine di Nunzio o dei rifugiati di Bar alle condizioni estremizzate tanto nella situazione scenica quanto in quelle esistenziali di Pali o di Giù, dalla flebile familiare banalità de La festa, dai disarmanti dialoghi de Il Cortile, alla violenza burocratica de La busta. La componente post-tragica appartiene in pieno al loro teatro, il dramma è finito, non si è più nel dolore, l’esistenza si trascina verso un indefinibile “dopo”, la commedia al più conduce a un riso dianoetico e l’unità dei rapporti continuamente si sfilaccia. La quasi perenne e totale assenza del femminile si affianca all’idea di gioco come struttura ripetitiva: non è la tiritera gioiosa e infantile, il gioco è solo un supporto per qualcosa d’altro, di più profondo proprio perchè non più visibile. Le lotte non sono più dichiarate, stanno sotto pelle al punto da renderle impossibili da risolvere, sono figlie dell’abitudine radicata. La scena quotidiana si spoglia della componente naturalistica, si svuota quasi del tutto e poi si riempie, spostandosi verso un orizzonte più metaforico. Similmente a questa nel percorso linguistico il dialetto, inizialmente adottato come lingua musicale, veniva presto abbandonato a favore di un’asciugatura dei suoni, sporcati appena ma non così tanto da ricondurre inesorabilmente all’identità regionale. La direzione è verso una più intima, concreta realtà sociale, che dà a quei dialoghi svuotati e tronchi una forza generatasi proprio da quell’assenza di definizione. «Che abbiamo fatto tutto questo tempo? Qualcosa abbiamo fatto. Abbiamo svuotato il sacco. Non è completamente vuoto, c’è ancora il buio»
Viviana Raciti
Twitter @viviana_raciti