Art you lost? L’installazione nella sua fase conclusiva, Opera, presso il 44° Festival di Santarcangelo. La recensione
L’ultimo grande evento a precedere la momentanea chiusura dei battenti del Teatro India (per dei lavori di ristrutturazione durati quasi due stagioni), Perdutamente, aveva visto al suo interno un complesso e ambizioso progetto che coinvolgeva cittadini e artisti intenti a ragionare sul concetto di appartenenza e di perdita. Nato nel dicembre 2012, infatti, Art you lost? è stato ideato da un ensemble che ha unito le forze di diversi gruppi: lacasadargilla, Muta Imago, Luca Brinchi e Roberta Zanardo di Santa Sangre e Matteo Angius. L’estate scorsa il lavoro ha lasciato gli spazi romani per trasferire la propria base presso il Festival di Santarcangelo e riproporre la prima fase di raccolta dati, mentre quella dimostrativa, Opera, si è svolta nell’appena conclusasi edizione 2014. Proprio quest’ultima tappa è stata per me primo approdo a uno dei più importanti festival italiani, quarantaquattro edizioni di teatro in piazza che degli spazi pubblici prende temporaneamente possesso, in un processo di dialogo in fieri tra i luoghi della città e quelli della performance.
All’interno di una scuola elementare viene costruito un museo delle memorie parziali (in effetti come potrebbe essere altrimenti) e non un archivio completo, frutto di una scelta precisa con un’idea altrettanto chiara del tracciato che vuole indicare. Si tratta di un percorso emotivo e personale, che presuppone un attraversamento dei sentimenti, chiede di fare delle scelte, chiede adesione.
Varcata la soglia con in mano una piccola dinamo, una boscaglia – ricreata ma assolutamente reale – accoglie primi passi di viandanti solitari, curiosi, affezionati e molti bambini. Parole sussurrate all’orecchio spronano a proseguire questo cammino tra fitti rami, bivi e odori; si potrebbe, ad avere paura, tornare indietro, ma il bosco, la sua impervietà, saranno poi come eco rimbalzati per tutto il resto dell’opera. Contrappunto all’apertura vertiginosa del cortile, dal quale si muoveranno tutti gli altri nuclei significanti. C’è un cielo che indica come costellazione i viaggi che i 369 protagonisti hanno compiuto prima di arrivare nel paese dei teatri. Ce n’è un’altro proiettato sui muri e su di esso una moltitudine di messaggi: normali scambi di conversazioni, epigrafi, invocazioni d’amore, graffiti, ipotetiche scritte qualsiasi immortalate in quell’istante e pronte a perdere il loro senso per passare dalla comunicazione all’informazione. Stando a questo gioco, l’orecchio potrebbe captare qualunque altra parola, qualunque altro gesto e farlo diventare parte dell’installazione.
Così, entra nella personale visione di questo archivio una reale conversazione tra un padre e il figlio che si domanda «Quale sarebbe lo scopo di tutto ciò?» L’adulto, sulla scia del sentiero boscoso appena percorso, poeticamente conquistato, risponde «Non avere paura». Mi trova d’accordo, tuttavia la faccia perplessa e scettica del bambino, meno abituato a tali meccanismi da cui non si lascia attrarre, dice la stessa perplessità di molti di noi, presi ad osservare con sguardo analitico questo posto della memoria col sapore di ricordi indotti, di una fanciullezza nostalgica e perduta che magicamente dovrebbe cedere il posto all’arte. Di cosa dovrebbe avere paura il bambino, il quale vede nel bosco non un incedere tortuoso della mente intenta a scavalcare paure nascoste, ma un gioco?
Per me, passeggera temporanea di questo luogo, guardare le gigantografie di volti tremolanti – segnali televisivi disturbati in un distratto zapping – potrebbe anche non portare alcun cambiamento. Davvero il viaggio sembra condurmi più vicina a essi? È questo l’importante? Poi, improvvisamente un viso noto, una faccia amica capovolge il pensiero, spingendo a mettermi nei panni di chi magari in quei volti poteva riconoscere ben più di una vita; di chi attraverso quelle parole, quei racconti, quelle firme – riprodotte su un altro muro –, quegli oggetti deposti con cura, poteva davvero venire investito da orde di ricordi comuni e vicinanze inaspettate, immedesimarsi, chiamarle, come diceva Battisti, emozioni.
Come un’archivista alla sua prima perlustrazione che ancora non sa se sia di fronte a documenti integri o a carta mangiata dai topi, mi metto a cercare anch’io tra i segni e nella moltitudine, sulla superficie appare una volontà di apertura, di condivisione; oltre il compulsivo bisogno d’espressione da social network, forse a tratti anche oltre l’autocompiacimento. Bisogna chiedersi però a chi è in grado di parlare: ad una comunità ristretta, a quella allargata, a chiunque? Al limite del teatro, probabilmente, il singolo perde di significato e ne acquista solo in quanto parte di un tutto. Non si tratta solamente di essere preparati o disposti a lasciarsi attraversare, serve domandarsi in cosa ci si è persi, se ha senso, e se questo smarrimento sia in grado di generare un nuovo segno che prima non c’era.
Viviana Raciti
Twitter @viviana_raciti
ART YOU LOST?
ideazione e produzione Lisa Ferlazzo Natoli, Alice Palazzi, Maddalena Parise, Alessandro Ferroni (lacasadargilla); Claudia Sorace e Riccardo Fazi (Muta Imago); Luca Brinchi e Robertaq Zanardo (Santasangre); Matteo Angius
direazione tecnica Maria Elena Fusacchia
promozione e organizzazione Francesca Corona (PAV)
co-produzione Santarcangelo 12-13-14. Festival Internazionale del Teatro in Piazza. Creato per la prima volta al Teatro India di Roma per il progetto Perdutamente nel dicembre 2012