Valle Occupato. Presentati i risultati del laboratorio di drammaturgia Crisi
«Una commedia comincia quando un ordine entra in crisi». Una frase con la quale si può facilmente essere d’accordo. Ché il conflitto è un elemento cardine per qualsiasi storia che voglia essere raccontata. Vero altresì è che sul termine “drammaturgia” il teatro stesso ci ha insegnato a litigare: in questi ultimi decenni sia gli artisti che gli spettatori hanno avuto modo (e a volte necessità) di tenderlo come un elastico per adattarlo a una materia che non accetta quasi mai di essere rinchiusa dentro strutture e dinamiche troppo astringenti. Se spesso è frutto del solo estro di firme leggendarie, è ragionevole immaginare che tali capacità possano provenire da un modello di lavoro tutto particolare e quasi sempre fecondo come quello del laboratorio. Uno degli esperimenti più riusciti – di certo non isolato ma ottimo come esempio – è quello del Royal Court Theatre di Londra, teatro nel centro del West End che ha creato negli anni una prolifica fucina di autori britannici e stranieri, intere generazioni di drammaturghi, con un lavoro continuo sulla straordinaria malleabilità del racconto teatrale. Gli stessi che adesso il pubblico apprezza, prodotti da stabili e festival internazionali, sui palcoscenici di tutto il mondo. Proprio il Royal Court era stato preso come uno dei modelli chiave quando, ormai tre anni fa, il Teatro Valle di Roma veniva occupato e prometteva di diventare, tra le altre cose, una culla della drammaturgia italiana e internazionale. O, se non una culla, un asilo.
Il laboratorio Crisi, condotto dal drammaturgo, attore e regista Fausto Paravidino, rappresenta di certo un unicum sul panorama italiano, con all’attivo ormai due anni di lavoro. E per la prima volta si affaccia a presentare alcuni risultati. In un’intervista rilasciata poco più di un anno fa a Graziano Graziani e pubblicata sui Quaderni del Teatro di Roma (e poi su Minima & Moralia) il processo di lavoro chiamava in causa uno «studio di gruppo», una sorta di interrogazione intellettuale e pratica del presente, declinata sul tema che dava il titolo al progetto, che comprendeva addirittura incontri con economisti «liberisti e non liberisti», per approfondire in maniera verticale un «tema unificante». Durante il lungo calendario di sessioni, «aperte e partecipate», Paravidino stesso aveva trovato il modo di portare a termine un proprio testo, dal titolo Il macello di Giobbe.
Già un anno fa, tuttavia, Paravidino faceva notare come il tema della “crisi” venisse poi tradotto dai drammaturghi in vicende più legate al quotidiano e in particolare ai drammi familiari, tra crisi di coppia e tribolazioni varie, per lo più comunque ambientate nella sfera privata. Il 10 giugno 2014 il palco del Valle ha ospitato i risultati, quattro estratti di rispettivi testi, «i primi ma non gli unici a essere giunti a un finale», spiega Paravidino. Si parte con Via della Maddalena, in cui Marco Taddei mette in scena l’omonimo vicolo di Genova, animato da un acceso e semiserio dialogo tra vicini di casa, svegliati nel cuore della notte da una tossicodipendente che grida allo scippo. In Convivenze, due ventenni ancora vergini tentano goffamente di sedurre una coppia di amiche: l’autore Paolo Tommaso Tambasco, che sale sul palco timido e taciturno, dichiara di aver diviso in due personaggi delle proprie ansie nell’approccio ai rapporti di coppia. Se una certa verve nei dialoghi e un certo gusto per il grottesco e il pulp divertito caratterizzano Balls di Aram Kian, il più organico e maturo resta Aritmia di Carlotta Corradi, che compone un doppio triangolo amoroso già forte di qualche promessa, grazie a un ottimo dosaggio del ritmo e della crudeltà dei non detti: palpabile è quello che lei stessa dice, «lo spazio di un grande teatro fa riverberare al meglio le piccole solitudini». Rispetto a un materiale che non ha dimostrato reale potenza sufficiente a colpire (forse anche solo perché non completo) e al di là delle note critiche, che non possono che ridursi a brevi accenni dato che solo brevi assaggi ci sono stati offerti, una breve riflessione va dedicata alla croce e alla delizia di questo modo di lavorare.
A penalizzare più di ogni altra cosa il risultato di questo esperimento può essere proprio quell’atteggiamento informale con cui viene presentato. Il codice della “mise en espace”, sempre più usato in questi ambienti sperimentali (nel senso proprio del termine) viene ormai dato per scontato come scelta obbligata e troppo spesso se ne sottovaluta il rischio insito di svalutazione del contenuto che trasmette. In altre parole, pur disponendo – come anche in questo caso, almeno per una maggioranza – di attori efficaci, il fatto di veder in scena dei moduli performativi davvero grezzi penalizza la trasmissione del materiale visto come centrale: il testo.
Sembra quasi che, dal momento che il laboratorio di cui si presenta l’esito era incentrato sul testo, tutto ciò che lo porta sia autorizzato ad assumere una forma approssimativa: i corpi e la loro distribuzione nello spazio non sono affatto curati, il copione biancheggia invadente tra le mani degli attori, che in un attimo e sempre più spesso si trovano in riga come schiere di militari, annullando ogni profondità, appiattendo del tutto la visione e finendo per confondere anche i dialoghi (l’unica cosa che di fatto ci viene offerta) dentro un’unica macchia di cui è difficile distinguere le sfumature.
Se l’intenzione del laboratorio Crisi è encomiabile ed è estremamente utile per lo stimolo dei nuovi autori un così generoso impiego di ore nella fase della creazione, occorrerebbe maggior cura anche nella consegna dei materiali, perché il teatro – anche quello di testo – è fatto innanzitutto di corpi. A dimostrarlo sono i pochi commenti rilasciati dagli autori presenti in sala, interrogati da Paravidino, che dicono di aver visto il loro lavoro prendere forma. Sarebbe ancora più interessante portare il pubblico a comprendere sempre meglio il funzionamento di quelle mutazioni.
Sergio Lo Gatto
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