Un approfondimento sul festival Luoghi Comuni: la relazione attore-spettatore
1. I “luoghi comuni” e il problema del coinvolgimento
Il Luoghi Comuni Festival di Mantova – tenutosi dal 14 al 16 marzo 2014 e organizzato dalla Associazione Être, in collaborazione con Teatro Magro – mette al centro della sua attenzione il pubblico. L’ intento è coinvolgerlo in azioni teatrali e performative, disseminate in molti luoghi pubblici della città (teatri, bar, strade, ristoranti, ecc.) per cercare di capire che cosa lo spettatore si aspetti dal teatro, perché venga ad assistere a uno spettacolo e soprattutto come partecipi al processo creativo. Non a caso, il motto di tutta l’iniziativa è Play With Us!, un imperativo che potrebbe essere riformulato in questo senso: “Spettatore! smettila di stare sulla poltrona ad avvizzire nella pura contemplazione passiva, ma gioca finalmente con noi, trasformati da ordinario spectator in inusuale actor”.
Il coinvolgimento dello spettatore è effettivamente avvenuto nelle giornate del festival. La scelta di allestire spettacoli in posti inusuali e in genere non deputati alla ricerca del teatro ha infatti incentivato molto il pubblico ad assumere un atteggiamento più partecipativo. I luoghi pubblici hanno creato atmosfere intime, consentendo al pubblico di entrare in contatto diretto (alle volte persino fisico) con gli artisti e di essere calato in fatti, situazioni, idee che non sarebbero potute arrivare con altrettanta intensità, se avessero avuto luogo nelle consuete platee; a dimostrazione insomma che ogni progetto teatrale deve fare attenzione a determinare quale luogo si presti meglio al raggiungimento dei suoi obiettivi artistici e di quanti spettatori abbia bisogno per ottenerli.
Un altro pregio di Luoghi Comuni Festival è poi quello di aver sollevato una questione, a cui cercherò di dare una personale risposta, facendo il resoconto degli spettacoli che ho assistito in quell’occasione. Che cosa significa instaurare una relazione tra attori e spettatori, e come se ne può costruire una produttiva e felice? Affermando che c’è l’urgente bisogno di coinvolgere lo spettatore in azioni performative, la rassegna intende del resto dire che è in cerca di nuove forme di relazione tra artisti e pubblico, creatori e fruitori, alternativa a quella usuale e che sembra essere giunta a una crisi. Si tratta della relazione che prevede l’osservanza del tacito patto che lo spettatore debba solo guardare-ascoltare e l’attore solo recitare, senza mai abbandonare i loro rispettivi mondi, separati dalla cosiddetta “quarta parete”. Qualunque tentativo di creazione di una diversa modalità relazionale implica, pertanto, uno sforzo di espatriare spectator e actor dai loro mondi sicuri e isolati, portandoli in una zona terza che permetta una loro osmosi o almeno un proficuo incontro.
2. L’equivoco della passività dello spettatore
Per affrontare la questione, occorre prima rimediare all’equivoco implicitamente compreso nel motto Play With Us!, ossia che lo spettatore sia un mero recettore passivo di quanto accade sulla scena. In realtà, ogni spectator è di per sé uno spec-actor, un actor la cui azione si esaurisce nelle niente affatto semplici attività dell’osservare e dell’ascoltare, che peraltro variano notevolmente da individuo a individuo. Nello spazio vasto della platea convivono, infatti, almeno lo sguardo/ascolto critico – che va alla ricerca di significati attraverso i segni lasciati dal drammaturgo e dal regista e dall’attore sul palcoscenico – lo sguardo/ascolto partecipato, che si aspetta che qualcosa prorompa dalla scena e lo sorprenda, o ancora lo sguardo/ l’ascolto creativo, che collabora con quanto l’attore sta facendo o dicendo ponendogli totale concentrazione e vigilanza. Il comportamento dello spectator non è, così, meno performativo rispetto a quello dell’actor, ma emerge con poca evidenza perché non è sotto l’attenzione di tutti. Questo implica che lo spettatore sia già attivo e che lo sforzo di coinvolgerlo in una performance si manfifesti convincendolo ad intraprendere un’attività diversa da quella dello sguardo e dell’ascolto distante.
Ma se le cose stanno così, è probabile che la relazione attore-spettatore non sia un rapporto tra pari, bensì tra impari. Il secondo è, infatti, paradossalmente più attivo del primo, perché nel suo ruolo di osservatore-ascoltatore ha un arbitrio maggiore rispetto a quello concesso all’attore, potendo scegliere che genere di sguardo e ascolto assumere, così come se collaborare o non collaborare con gli artisti. Queste possibilità sono invece precluse a questi ultimi, i quali, dovendo mettere in scena un lavoro che ha un suo preciso obiettivo hanno necessariamente uno sguardo, un ascolto e un insieme di azioni da fare o di parole da dire magari molto fluidi, ma sicuramente connotati in partenza. Ora, calando questa premessa nel problema del coinvolgimento nell’azione performativa, si capisce che lo spettatore è un partecipante pericoloso e difficile da gestire, in quanto è capace tanto di impedire il gioco in corso per assecondare il suo eccessivo arbitrio, quanto di aderirvi in maniera debole, quanto ancora di tornare alla modalità di fruizione dello spettacolo a cui è abituato (io ascolto-osservo, tu agisci), se avverte che gli vengono posti dei limiti troppo ferrei.
3. Le tre relazioni felici mancate
A ciascuna di queste tre possibilità corrispondono tre specie di relazioni infruttuose tra actor e spectator, che ho riscontrato all’interno di molti spettacoli del festival, il cui valore artistico resta comunque innegabile. Essi mantengono bellezza e sostanza, ma creatore e pubblico vengono lasciati su piani irrelati, senza alcun profondo contatto.
La prima relazione infruttuosa prevede che lo spectator tenga in segreto “ostaggio” l’actor. Se egli non avverte che ci sono delle regole più o meno esplicite da rispettare nella fruizione dello spettacolo a cui sta partecipando, si sentirà dopotutto in possesso della libertà negativa di fare idealmente qualunque cosa, tra cui quella di compromettere la creazione collettiva e la relazione in corso con una reazione azzardata. Il lavoro più esposto a questo rischio è A.T.A. azienda traghettatori anime della compagnia Ilinx. Esso prevede che quattro spettatori vengano scambiati per delle anime trapassate da tre traghettatori d’anime e caricati su una macchina per essere portati nel luogo di passaggio per l’oltretomba dove saranno giudicati da “Lui”. Gli spettatori vengono per lungo tempo interrogati sulle proprie generalità, coinvolti nei litigi personali dei traghettatori, preparati al salto verso una nuova vita e calati in una affascinante atmosfera di mistero, che verrà presto infranta dalla scoperta di non essere loro stessi le anime che i traghettatori aspettavano. Saranno quindi riaccompagnati nel totale silenzio al punto di partenza, con la consapevolezza di essere stati sul punto di vedere qualcosa di incredibile e nutrendo il monito di vivere al meglio la propria esistenza terrena, poiché ormai sanno che qualcosa li aspetterà dopo il loro trapasso. Purtroppo, la vivace struttura interattiva ha il limite di non segnalare con chiarezza che non tutto è concesso allo spettatore e che vi è la regola tacita di non abbandonare la macchina, nei momenti in cui essa viene lasciata scoperta dagli attori. In un punto in particolare lo spettacolo è soggetto al forte rischio di essere interrotto, ossia quello in cui due traghettatori abbandonano la macchina lasciando abitacolo e portabagagli aperti, dunque un potenziale mezzo di fuga per i quattro spettatori, che tra l’altro non avrebbero incontrato ostacoli di sorta dal terzo interprete, che in quel preciso momento recita la parte del personaggio caduto in stato catatonico. Il fatto che ciò possa intuitivamente accadere mostra che c’è un problema strutturale nel modo di intendere la relazione del pubblico, che appunto tiene in ostaggio gli attori perché non gli è impedito di usare il suo arbitrio per rompere la misteriosa atmosfera faticosamente creata.
La seconda relazione infruttuosa l’ho di contro riscontrata nei lavori Brainstorm! but never mind… di Residenza InItinere e Molti di Residenza Idra. Qui lo spettatore viene rispettivamente portato a collaborare, nel primo caso all’ esperimento di un mentalista, che si propone di sviluppare l’intelligenza latente degli spettatori ma avrà la tragicomica conseguenza di far regredire il mentalista al livello di una scimmia. Mentre nel secondo i partecipanti saranno chiamati a prendere posizione in un dibattito sull’esistenza di Dio, proposto da due attori che non intendono più recitare in spettacoli convenzionali e dai temi ormai ritriti. Le idee di base che sorreggono i due spettacoli sono sì buone, ma a mio avviso esse determinano più un’interazione ludica che non una vera e propria creazione collettiva. Gli attori lanciano delle dirette provocazioni agli spettatori e a volte li costringono a partecipare loro malgrado, per esempio selezionando a caso le persone da coinvolgere nel gioco in assenza di volontari, soltanto per portarli a eseguire delle azioni già programmate e senza alcuna carica poetica: mettersi a destra o a sinistra, contare le braccia alzate, rispondere con poche parole a una domanda, conservare un oggetto di scena, ecc. Potremmo chiamare questa relazione la “relazione del gioco controllato”, che sfugge ai pericolosi imprevisti in cui incorre il lavoro degli Ilinx, tuttavia precludendo la realizzazione di gesti carichi di significato.
Terzo e ultimo tipo di relazione infruttuosa è, infine, quello che infrange la quarta parete solo di facciata e torna, nei fatti, alla rigidità della relazione ordinaria che ha luogo nelle sale teatrali. Vi incorre, da un lato, il Pinocchio REadyMADE di delleAli Teatro, dove l’attore Antonello Cassinotti e il pianista Alberto Forino costruiscono una raffinata improvvisazione sonora per voce recitante e musica dal vivo sul Pinocchio di Collodi, di cui vengono letti una versione condensata del capitolo iniziale, del capitolo finale e un cospicuo numero di capitoli di mezzo, scelti però direttamente dal pubblico. Dall’altro, vi cade il lavoro Saga Salsa di Qui e ora Residenze Teatrali, che porta il pubblico a cenare in un ristorante che serve solo piatti a base di salsa di pomodoro e gestito da tre donne (nonna, madre, figlia), che raccontano agli avventori la nascita dell’azienda di famiglia, gli eventi sia gioiosi che dolorosi che si sono consumati sul tavolo da cucina e i tentativi di unire ai piaceri del cibo il godimento della lettura di poesie. L’esecuzione del primo lavoro è impeccabile e brillante, tanto che lo spectator esce dal teatro con il proprio bambino interiore che ancora ricorda con allegria le avventure di Pinocchio, mentre il secondo è pregno di contenuti poetici di importanza capitale. Saga Salsa usa, infatti, la vicenda familiare per comunicare che l’uomo ha bisogno tanto di cibo quanto di poesia e che una crescita armonica delle persona passa sia per la soddisfazione del corpo che del nutrimento dell’anima attraverso l’arte. In entrambi i casi, lo spettatore viene tuttavia coinvolto solo negli intermezzi performativi e, per il resto, viene relegato nel suo mondo privato, alla sua attività di contemplazione solitaria di quello che l’attore o le tre attrici fanno/raccontano in modo altrettanto solitario. Le equilibrate proposte di interazione danno, perciò, l’illusione per qualche attimo di opporsi alla struttura dello spettacolo convenzionale, per poi essere subito riassorbite nel suo alveo.
4. Una quarta via: l’intreccio spontaneo di actor e spectator in atto creativo vigilato
Ma se le cose stanno così, se cioè la relazione risulta infelice quando lo spettatore ha troppa libertà e quando ne ha troppa poca, essendo guidato quasi completamente dagli attori o autorizzato a intervenire sono negli intermezzi dello spettacolo, allora la relazione di tipo felice si determina se si punta a creare un equilibrio tra questi due poli. Essa potrebbe consistere in una relazione in cui la distinzione di ruoli (actor / spectator) è marcata quanto basta per impedire alla radice il sorgere di imprevisti o abusi di competenze e allo stesso tempo talmente sottile da permettere delle impercettibili sovrapposizioni delle loro attività, trovandosi così a collaborare alla creazione di senso senza alcuna costrizione esterna. Nascerebbero in tal modo degli spettacoli in cui diventa impossibile appurare dove comincia l’azione dello spettatore e dove finisce quello dell’attore, perché entrambi costituirebbero le due facce di un unico e medesimo processo compositivo.
Una tale convergenza potrebbe avvenire sul piano emotivo o sul piano intellettuale. Nel primo caso, avremo lo spettacolo Bed Inside di animanera. In questo caso l’azione prevede che uno spettatore entri in un boduoir e si corichi nel letto con un attore o un’attrice disabile, la quale con un monologo ipnotico convince l’altro a entrare a poco a poco in un rapporto di intimità e di fiducia. In questo caso, la convergenza è ottenuta perché il corpo dello spectator è in azione intrecciata con quella dell’actor, che conserva il suo ruolo di preminenza in quanto mantiene la funzione di guida con il suo monologo programmato. Nel secondo caso, otterremo invece Hamlet private di ScarlattineTeatro, altro esempio di spettacolo per un solo spettatore alla volta, che viene stavolta portato a praticare l’arte del dubbio che sta alla base delle azioni di Amleto. Il mezzo che conduce a questo fine è la lettura di un mezzo di tarocchi da parte di un performer. Dopo essere entrato in confidenza, questi invita lo spectator a distribuire e collocare le carte su un tavolo secondo il suo arbitrio, inducendolo a dare una motivazione delle proprie scelte e ricevendone in cambio un’interpretazione della personalità, che a sua volta lo porterà a formulare delle domande sulla propria condotta. Anche in questo caso, la convergenza è dovuta al fatto che l’esegesi dell’actor induce i quesiti dello spectator, che a sua volta induce altri dubbi nell’actor, il quale però mantiene sempre il controllo perché non perde mai di vista il fine di questo incrocio: mostrare come la storia di Amleto sia in realtà la nostra storia, le incertezze del personaggio sono le nostre incertezze, forse meno tragiche ma di certo altrettanto dilaceranti.
Enrico Piergiacomi
Mantova, Luoghi Comuni Festival 2014