Una lettera al ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini
Caro ministro Dario Franceschini,
di questi e precedenti governi e altri e nobili futuri.
Mi permetto l’azzardo di questa lettera, per uno slancio forse di superbia nel credere sia letta e per una cecità estesa che non sa permettermi il vaglio delle opportunità.
Caro ministro,
il motivo di questa mia risiede nel disarmo in cui riversa il bene culturale di questo paese. Da poche settimane lei ricopre questo incarico, ma già molte sue dichiarazioni mi spingono a monitorarne la gittata e il risalto che lei e solo lei saprà determinare.
Leggo da una sua intervista a Il Messaggero del 30 marzo 2014 che, contro il rischio paventato di lottizzazione previsto da un folle piano urbanistico, «il colle di Leopardi non sarà deturpato». Esulto alla notizia e torno con la mente ai miei ricordi liceali, quando al solo compitarne i versi quel poeta di Recanati mi consegnava la maestosità dello sguardo e il martirio delle emozioni. L’estensione di Leopardi, lei di certo ne è stato lettore, raccoglie in sé la minuta esperienza umana e la tramuta negli spazi “interminati”, i silenzi “sovrumani” che solo quel “ma” pronunciato a inizio verso, esteriorizzato un attimo dopo aver demolito la parete sensibile dello sguardo, sa rimemorare come s’imponesse tra gli occhi e la visione.
Caro ministro,
proprio in questo periodo tiene banco anche l’annosa questione Pompei, i suoi crolli continui e minacciati, la sua conseguente e forse troppo rimandata manutenzione. Ma anche qui certe parole rassicurano e il suo monitoraggio sui nuovi vertici promette un controllo propositivo e non vincoli che burocratizzano il paesaggio e l’architettura viva in esso. Pompei è la nostra storia nazionale, forse chissà, proprio per l’irreparabilità da cui ebbe origine, forse perché opera inconsapevole dell’uomo, architettura incolta e pur conscia del difetto che l’ha generata. Pompei lascia di sé la traccia della remissività nell’uomo al cospetto della natura.
Eppure caro ministro,
entrambi questi casi in cui lei pare spendersi con fervente e lodevole impegno, costituiscono un esemplare nitido di un dato invece allarmante: la sua idea di bene culturale, ma più ancora del governo di cui è parte, ha un debito grossolano nei confronti della conservazione, quando tale bene sia conclamato come pericolante. Ma il bene si dovrà pur vedere, al fine di essere preservato. L’intervento sulle aree disastrate o a rischio, avviene e si promette a rischio ormai in opera. Tutto ciò non sarebbe in tutto un male, se non illuminasse tuttavia un problema più ampio nel concepire la cultura come bene concreto su cui porre concreti progetti economizzanti. È proprio lei a dichiarare come il futuro dei beni culturali sia quello di entrare a contatto parziale con magnanimi e facoltosi imprenditori privati che si sobbarchino restauri e lavori di ammodernamento. È lei a fare, tra gli esempi, quello di Diego Della Valle che pose il suo denaro alla necessità del Colosseo. Ma non è forse questo un punto di non ritorno, ministro? Quali sono i vincoli e quali rischi di un tacito assenso di rimando? Non è forse così che inizia l’appalto di una lottizzazione ancora più ampia e devastante? Il primo ministro del suo governo, da sindaco di Firenze fece scalpore nell’affittare Ponte Vecchio per una cena “aziendale” della Ferrari, incassando sì molti denari, ma deturpando non il luogo, bensì l’evocazione che quel luogo è in grado di innescare. Vede ministro, il turismo che lei nell’intervista citata e in tante altre vede come potenziale soluzione a ogni problema, potrà ben risollevare certe economie, ma la “turistizzazione” dei luoghi rischia di trasformarli in location e per questo di svilire la portata storica, quindi l’interesse che sono in grado di stimolare. Insomma, l’effetto boomerang.
Ma c’è una cosa ancora, caro ministro,
che mi preme dirle. Non la sola tangibilità è del bene culturale. Possiamo sedere sull’ “ermo colle”, passeggiare tra le rovine di Pompei, ospitare capi di Stato al Colosseo. Ciò che è visibile, lei vede. Eppure le sarebbe bastato Il piccolo principe per sapere che «l’essenziale è invisibile agli occhi», per accorgersi che l’intangibilità è il valore culturale per eccellenza. Come si difende l’evanescenza, il fumo oltre la pietanza? Noi viviamo in teatro e di teatro, ministro, non viviamo. Nel giorno appena successivo a quello in cui un direttore in pectore del teatro stabile di Roma era rimosso da lei (a sconfessare il suo predecessore Bray) e da chi l’aveva designato, per incompatibilità riscontrata fuori tempo massimo, lei non solo non lasciava dichiarazioni su un fatto gravissimo di inadeguatezza e grossolanità, ma si crogiolava celebrando in Senato la Giornata mondiale del teatro 2014, dichiarando l’inizio delle celebrazioni per il ricordo del grande Eduardo (quest’anno ricorre il trentennale dalla morte), diffondendo una sorta di programma di sala con tante citazioni di celebri – e morti – maestri (uno solo di essi vivente). Allora ministro, prenda nota: il teatro nazionale contemporaneo versa in condizioni da minimi storici, la città di Roma capitale di questo Stato di cui sta governando parte è culturalmente una lontana provincia di un impero per fortuna inesistente, così da non sentirne il disagio, mancano spazi (che vengono chiusi o anestetizzati) e politiche progettuali, manca un piano che ponga in un sistema virtuoso e centralizzato le piccole e belle esperienze indipendenti, ognuna delle quali è conclusa nel silenzio e più non produce quella vitalità di cui questa città ha fatto un vanto. Ma soprattutto, caro ministro, il teatro è esattamente il contrario di ciò che lei evidenzia come bene culturale: non può far veicolo di turismo, non può essere restaurato, è l’opposto categorico della celebrazione. Great job, le ha detto il presidente Obama incontrandola a Roma, a proposito del lavoro che svolge. Americani, turisti da passeggio. Anche un presidente USA se le concede, talvolta, le “vacanze romane”.
Simone Nebbia
Twitter @simone_nebbia
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