Recensione di Uso umano di esseri umani di Romeo Castellucci
«In ogni modo siamo già stati tutti morti prima di vivere, e ne siamo usciti vivi».
Jean Baudrillard
«Sei tu che devi risorgere, lasciami morire… Preferisco non nascere. Non farmi sanguinare in una prossima coscienza». Due giovani borghesi in giacca e cravatta si fronteggiano in una grande stanza vuota, uno dei due, il più alto e massiccio, sfodera come una rivoltella le dita eusignanti, tenendo la mano all’altezza del petto. Più che la benedizione che dovrebbe essere appare come una minaccia. Cristo si ripete nel mantra della resurrezione secondo la lingua della tradizione. Lazzaro si difende con le secche argomentazioni che potrebbero essere di Emil Cioran (che sono a loro volta quelle di certo gnosticismo). Basterebbe questo malinteso più volte ripetuto sullo sfondo di una serie di imballaggi addossati al muro per innescare un dramma quasi mai scritto nella letteratura occidentale (se si eccettua un bellissimo racconto di Leonid Andreev dedicato appunto a Lazzaro): quello del primo risorto che è anche il primo uomo destinato a morire due volte.
Ma, poiché siamo sulla scena di Romeo Castellucci, a Bologna, nell’ex Ospedale dei Bastardini dove si è svolta la prima assoluta di Uso umano di esseri umani – parte del progetto E la volpe disse al corvo… curato da Piersandra Di Matteo – il risvolto ironico della situazione è concentrato nel partito preso di una recitazione ostentatamente anacronistica che, ai limiti del kitsch (che cosa è il kitsch? è il male, pensava Herman Broch, nel campo dell’estetica), prosegue nella sua opera di ritorsione del teatro contro sé stesso. Il breve dialogo che si conclude con la paradossale, deludente e inaudita, ammissione del Redentore, «non so che dire», è in realtà il letterale pretesto di un esercizio linguistico che si ripeterà altre quattro volte nei vari livelli della Lingua Generalissima coniata da Claudia Castellucci nei lontani anni ottanta. Una lingua che, a ogni ripetizione, riduce la propria complessità in nome di una progressiva semplificazione, a un tempo concettuale e primitiva. «Sintassi elementare, verbo raro, vocabolario senza grazia» (questa la definizione che Marcel Griaule ha dato della lingua cosmica dei Dogon): all’ultimo, non restano che quattro parole per esprimere un abisso. Agone, Apotema, Blok, Meteora.
Prima dell’articolazione della frase c’è stato il prologo in un altro spazio dove gli spettatori sono stati investiti da un acre sentore di ammoniaca e messi di fronte a un gruppo di disinfestatori in tuta bianca, occhiali e respiratori che facevano ruotare un gigantesco disco bianco ricoperto di segni, simile a un tema astrale. Che cosa è il disco? Perché l’ammoniaca, che costringe gli spettatori ad alzare colli e sciarpe per non respirare il suo effluvio chimico? Perché le zampe di un cavallo a pezzi fanno rintoccare gli zoccoli davanti al disco che ora occlude una porta con tutta la sua imponenza? E a chi appartiene il pugno oscillante della singolare, un po’ dadaistica macchina tira-pugni che nel secondo tempo colpisce ripetutamente la mascella di un attore fino a metterlo K.O.? Ogni domanda finisce per trovare (quasi) una risposta nella sciarada castellucciana, ma solo nel momento in cui dagli imballaggi viene liberato il modello della rappresentazione: la Resurrezione di Lazzaro dipinta intorno al 1305 da Giotto per la cappella degli Scrovegni, o meglio una sua riproduzione tirata nel terreo non colore che domina l’intera scena. È attraverso quel volto esangue, prosciugato, che spunta dalle bende strette, che bisogna leggere il tentativo di mettere in scena ciò che non può essere rappresentato: il soffocamento di un doppio trapasso dal nulla alla nascita, e dalla nascita alla morte. Perché è la nascita, come ha detto una volta Romeo Castellucci, «il vero evento tragico della vita umana», non la morte.
Tutto si lega in questa volontà di impossibile: gli imballaggi alle bende che segregano il cadavere vivente di Lazzaro di Betania, l’ammoniaca al puzzo della decomposizione, i disinfestatori alle pie donne che attorno al sepolcro si velano il viso per difendersi dal soffio della morte, il disco su cui è impresso l’oroscopo della lingua universale alla pietra rotolante del sepolcro. Tutto avviene qui, nella ripetizione, tra i ragazzi con i mantelli gialli gettati sulle spalle seduti a terra come apostoli smarriti, nel disagio sensoriale degli astanti, e contemporaneamente altrove, nell’irreprensibile distruzione metafisica che tracima da un cerimoniale dove allo spettatore si concede poco, a parte il discutibile privilegio di ritrovarsi seppellito vivo, assieme a un dio che muore per sostituirsi all’uomo, entrando nella terra al suo posto.
Senza resurrezione, trasferendo il contraccolpo della sua gloria mancata sull’inumana potenza della morte, suggellata dalla vibrazione ventrale, terrifica che amplia l’epilogo dello spettacolo in una discesa nell’Ade – se nell’Ade si suona una musica, deve essere questo canto difonico per strumenti tibetani che satura l’aria e conduce il cuore alla rovina. Una materia sonora dalla quale, sulla carta, si potrebbe anche fuggire. Se non che, al lato opposto del concerto dei Phurpa, resta solo l’affresco di Giotto su cui posare lo sguardo. Ma ormai non lo si può guardare con occhi diversi da quelli, defiguranti, di Uso umano di esseri umani. Si può uscire dallo spazio, insomma, non dal circuito di contagio della rappresentazione, sottrarsi alla vista (all’udito, all’odorato, ai sensi), ma non al virus animoso dell’invisibile.
Guy Debord diceva che lo spettacolo ha «la struttura del comando, è anti-dialettico». Gli spettacoli di Romeo Castellucci non possono non essere subiti, persino da chi li rifiuta. Non ci si può iscrivere tra i cultori del regista romagnolo: si renderebbe soltanto omaggio alla sua potenza nichilistica. Ma non ci si può neanche arruolare tra i suoi detrattori: si rischierebbe di rimuovere la straordinaria profondità del suo pensiero. Bisognerà rassegnarsi a essere tra i suoi critici – ostinarsi a trattare dialetticamente qualcosa che, visibilmente e con tutta sé stessa, rifiuta ogni dialettica.
Attilio Scarpellini
Twitter @AttilioScarpell
visto all’ex Ospedale dei Bastardini di Bologna in febbraio 2014
USO UMANO DI ESSERI UMANI
Un esercizio in Lingua Generalissima
di Romeo Castellucci
musica dal vivo dei Phurpa
testo di Claudia Castellucci
suoni di Scott Gibbons
con Simone Bobini, Dario Boldrini, Bernardo Bruno, Silvano Voltolina
e con Isabella Benedettelli, Nina Bollini, Sabina Borelli, Gemma Carbone, Serena Dibiase, Nicole Guerzoni, Silvio Impegnoso, Andrea Alessandro La Bozzetta, Andrea Meloni,Paola Stella Minni, Manoel Morelli, Filippo Pagotto
disegno tecnico della Generalissima Paride Piccinini
tecnica del suono Stefano Carboni
attrezzeria Vito Matera, Gionni Gardini
produzione Socìetas Raffaello Sanzio
in collaborazione con Xing
coproduzione: Electrotheatre Stanislavsky / Mosca; Kunstenfestivaldesarts / Bruxelles
Grazie alla collaborazione di Provincia di Bologna