Recensione doppia di iTmoi, spettacolo di Akram Khan visto all’Auditorium di Roma, Equilibrio Festival
Tutto è già accaduto. E prima? Saremmo entrati in una delle tante sale dell’Auditorium con l’idea chiara di Igor Stravinskij, magari portandocela dietro latente per tutto lo spettacolo, chiedendoci di tanto in tanto in quale maglia di movimento, in quali vibrazioni cogliere la potenza della musica. In effetti il lavoro di Akram Khan, dell’intera équipe che ha compartecipato alla creazione del progetto iTMOi (In the Mind Of Igor) ha sondato approfonditamente il mondo del compositore russo di cui si celebra il centenario dalla prima messa in scena della sua opera più famosa: Le Sacre du Printemps. Un lungo periodo di ricerca che sulla scena si esplica in una riflessione sul concetto di sacrificio, che più che prendere spunto, sembra innalzare musica e tematiche a modello d’ispirazione, creando sulla scena un mondo essenziale e nello stesso tempo latore di molteplici significati, tali da generare visioni assolutamente diverse.
iTMOi. Il titolo è un acronimo per in the mind of Igor. Tale cripticità nella quale è possibile scorgere una traccia di significato è una delle prime componenti fondamentali, lampanti, dell’ultimo corale lavoro diretto da Akram Khan. L’evidenza lascia spazio al segno celato, si esplorano i confini del visibile appena, del quasi inudibile, del senso celato dalla tecnica, che anzi proprio dalla tecnica si sposta verso un’astrazione più intima, vicina a noi, o che in essa rimane impedendo quel salto ulteriore, vitale. Altro aspetto che emerge è il concetto di potere, espresso dall’abilità dei danzatori quanto dall’efficacia di una scena costruita da pochi ed efficacissimi segni. Del resto, se così non fosse, gli innumerevoli spettatori sarebbero stati accolti solo da una coltre di fumo che dal palco avrebbe iniziato ad invadere platea e galleria; emanata da un immenso riquadro sospeso, lungi dall’esser solo strumento tecnico, avrà fin da subito importanza drammaturgica di grande corporeità. Dei danzatori si dovrebbe dire a lungo, raccontando delle dinamiche di forze opposte che si innescano sulla scena. I continui contrasti tra tensione e rilascio, tra movimento spezzato e fluidità quasi immobile, tra singolo e collettività, tra sottomissione e insubordinazione, li ritroveremo nell’alternanza di luce, buio ed ombre, nel dispiegamento di sonorità elettroniche, concrete (tra i quali emergeranno suoni di campane, battiti cardiaci) o di melodie più classiche. Tutto sembra essere in tacito accordo con la musica di Stravinskij, senza che questa si affacci mai come citazione gratuita. Anche sul piano più ” narrativo” non troveremo che un rimando alla tradizione, quasi un pensiero su un concetto più generale, tra una Natura che si vorrebbe mettere in discussione, terribile e affascinante, che si prova a sovvertire contraddicendo alle regole stabilite, e il suo prezzo da pagare, rischiando, come un Prometeo imbrigliato a cordoni ombelicali che sanno di frusta, una condanna eterna o invece il vittorioso passaggio di scettro. Alcune scelte a volte – come il rito sabbatico che inscena ferocemente quello che sembra uno stregone nero – sposteranno il pensiero su un’idea di più vicina al nostro immaginario; eppure “l’appiglio” in questo caso diventa cliché che poco aggiunge, non lasciando peraltro quella libertà di visione a cui invece appartiene tutto lo spettacolo.
La riflessione sembra concludersi con la vittoria del nuovo sul vecchio, dell’innocenza sulla forza. Appena un accenno, potremmo esserci sbagliati, ma Khan ci ha portato a una soglia d’attenzione al particolare che non è da tutti; l’impressione d’aver sentito le note iniziali del Sacre sono confermate, riproposte appena un po’ più intensamente udibili. Una scena possente, che anche da sola meriterebbe tutto lo spettacolo. Due corpi ridotti a ombra sembrano finalmente incontrarsi, la promessa di rinascita sta avvenendo. Sopra di loro, la sfera che avremo osservato rimanere immobile per tutto il tempo inizia a muoversi – a scandire il tempo? – compiendo la sua rivoluzione, determinando l’azione dei due amanti, attenti a non farsi colpire. A fine di tutto, la memoria finalmente si fa presenza concreta, ecco che la vita, la musica, può iniziare.
Viviana Raciti
Twitter @Viviana_Raciti
L’incedere lento e graduale di una dama bianca che attraversa lo spazio scenico, fendendo l’atmosfera rarefatta e nebbiosa con solenne presenza scenica; i danzatori, si distribuiscono intorno a lei con aria di riverenza e sottomissione, come fossero di fronte a un oracolo in attesa che parli e annunci il verdetto. Questa figura femminea sembra impersonare la natura, maligna nella sua bellezza che è crudele e beffarda, tenendo in scacco l’essere umano in equilibrio precario tra il bene e il male; esso veste i panni di uno spirito sciamanico e demoniaco, è la sua voce stridula che dà inizio allo spettacolo, un prologo inquietante e dai toni grotteschi.
Akram Khan fa danzare un regno indefinito e popolato di strane presenze che aleggiano, si contorcono e recitano preghiere, ricreando immagini poetiche e vivide seppur astratte, ma la cui concretezza è tangibile e diretta a sconvolgere la nostra intimità. «Nella mente di Igor», recita il titolo, celebrando il centenario della musicalità geniale del compositore che vibra, si percuote, urla e ansima nei corpi dei danzatori; il loro movimento sembra quasi annullarsi nella sublimazione e abbandonando la visione diventa percezione pura, si agita dentro di noi, muovendo flussi di energia non solo sulla scena, ma nella nostra mente di spettatori. Ci si riconosce nella presentazione di una realtà che ci appartiene ma allo stesso tempo sconvolge, in un’ordinarietà conosciuta e universale dove il simbolismo dei personaggi poggia su solide radici dichiarate e a volte anche stereotipate – come ad esempio lo sciamano impersonato da un danzatore nero o il rito tribale – ma che, nella loro prevedibilità, riescono a veicolare un messaggio altro non univoco e libero di essere interpretato. La drammaturgia delle luci di Fabiana Piccioli e della colonna sonora originale creata da Nitin Sawhney, Jocelyn Pook e Ben Frost caratterizza una messa in scena dal grande impatto visivo, un flusso sinestetico che alterna sonorità incisive a silenzi attentamente dosati che, privi di musica, possiedono però la capacità di giungere alle nostre orecchie e innescare sonorità…
L’oscillazione continua e ripetuta di una sfera che guarda dall’alto l’incoerenza dell’arbitrio umano, la quale tuttavia abbandona il binario obbligato per virare in un giro imprevisto, pronto chissà a colpire le due figure, un uomo e una donna che come embrioni si muovono nella placenta del possibile sulle note appena accennate del ricordo de La Sagra della Primavera.
Lucia Medri
Twitter @LuciaMedri
Visto al Festival Equilibrio 2014 in febbraio, Auditorium Parco della Musica
Roma
iTMOi
visto presso l’Auditorium Parco della Musica in febbraio 2014
direzione artistica, coreografia Akram Khan
Musiche di Nitin Sawhney, Jocelyn Pook e Ben Frost
ideato ed eseguito da Kristina Alleyne, Sadé Alleyne, Ching-Ying Chien, Denis ‘Kooné’ Kuhnert, Yen-Ching Lin, TJ Lowe, Christine Joy Ritter, Catherine Schaub Abkarian, Nicola Monaco, Blenard Azizaj andCheng-An Wu
Costumi Kimie Nakano
Luci Fabiana Piccioli
Scenografie Matt Deely
Dramaturgia Ruth Little
Richerche a cura di Joel Jenkins
Assistente alla coreografia Andrej Petrovic and Jose Agudo
Realizzazione scene a cura di Sander Loonen and Firma Smits
Suono Nicolas Faure
Produttore Farooq Chaudhry
Produttore associato Bia Oliveira
Coprodotto da Sadler’s Wells London, MC2: Grenoble, HELLERAU – European Center for the Arts Dresden, Les Théâtres de la Ville de Luxembourg
Project Manager Céline Gaubert
Technical Team on Tour:
Coordinatore tecnico Richard Fagan
Luci Peter Swikker
Costumi e attrezzeria Leila Ransley or Anne-Marie Bigby
Tecnico Marek Pomocki
Tour Manager Lies Doms