Il Teatro Palladium annulla la stagione 2014 e lascia orfana Roma di un teatro che in un decennio ha portato sul palco della Garbatella nomi storici come Peter Brook, la ricerca italiana come Valdoca e Raffaello Sanzio e la nuova scena, dai Babilonia Teatri a Daniele Timpano. L’ha fatto con una coerenza rara, riuscendo cioè a disegnare un filo di pensiero e di programmazione prezioso e unico, in grado di tenere assieme questi mondi con coerenza.
È quindi più che doveroso indignarsi per questa chiusura, che ha il suo unico responsabile nella gestione miope e oramai autolesionista che le amministrazioni pubbliche stanno tenendo da diversi anni. Il Palladium cancella la stagione (leggi il comunicato) perché i contributi pubblici locali del 2014 non sono stati confermati. Non solo non si programma con un anno d’anticipo, come accade ad esempio in paesi come la Francia, ma addirittura non si sa se il teatro che dovrebbe esistere tra 10 giorni – tanto poco manca all’inizio del nuovo anno – può avere luogo o meno. Nel frattempo gli operatori si indebitano, esponendosi con le banche, come abbiamo visto di recente per il Teatro di Roma, apprendendo con apprensione che 150.000 euro all’anno di soldi pubblici se ne vanno in interessi bancari a causa della mala gestione degli stessi finanziamenti, erogati con insopportabile ritardo proprio da quel settore pubblico che chiede oggi rigore e moralizzazione nella spesa.
C’è chi ha detto che si tratta di un disegno ben preciso. La stagione annullata al Palladium si affianca alla chiusura di India per ristrutturazione e lo scenario della Capitale d’Italia diventa, nella visione d’insieme, allarmante. Perché si tratta degli unici due teatri interamente dedicati agli spettacoli d’arte e orientati al contemporaneo che pagavano a cachet. Il che significa che Roma non sarà in grado di portare sul territorio molto del teatro importante e necessario che c’è in giro. Certo, il Teatro Argentina chiude la triennalità a firma di Lavia con una bella stagione “in apertura”, ma è la pluralità dell’offerta teatrale che garantisce l’effervescenza culturale di una città, dimensione da cui Roma sembra essere sempre più lontana.
Personalmente non credo che ci sia alcun disegno, dietro il panorama desolante in cui rischiamo di sprofondare. Solo un’incapacità oramai programmatica di capire il mondo fuori dai palazzi del potere. La “scatola” amministrativa tira a campare e divora pian piano i “contenuti” che dovrebbe concretizzare. Quei contenuti che sono il fine ultimo per cui noi spendiamo soldi pubblici. Basta mettere in fila le dinamiche per capirlo. Finanziamenti in ritardo per stagioni già avviate. Assenza di una qualunque possibilità di programmazione e investimento. Esposizione bancaria a causa dei ritardi nei pagamenti. Ritardi che poi si propagano come un domino ricadendo su tutto il settore, dagli artisti ai tecnici. E infine risorse inadeguate a riconoscere la dignità lavorativa di chi produce cultura. Tutti questi sono sintomi dell’incapacità di gestire e programmare. Ovvero, di governare.
La nostra classe politica non sa più governare. Questo è il problema principale. Il suo pensiero si è infettato dell’ansia economicista che, in preda al panico della crisi, non sa più guardare al futuro. Nel linguaggio economico la gittata di un’azione strutturale è passata in pochissimo tempo dall’annualità alla semestralità fino alla trimestralità. Guai a esporsi oltre.
È triste che ciò avvenga mentre a livello nazionale il Ministro Bray azzarda un riassetto del sistema pubblico teatrale con soli quattro stabili nazionali e una serie di teatri di interesse pubblico. Perché sarebbe bello che Roma cavalcasse questo momento di passaggio, più che arrancargli dietro.
Graziano Graziani
Questo articolo fa parte del dittico Scatola e contenuto vol. 1 e vol. 2
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