La Veronal è una compagnia spagnola fondata nel 2005 da Marcos Morau, giovane coreografo formatosi tra Barcellona, Valencia e New York. I suoi interessi artistici non si limitano esclusivamente all’ambito coreutico, ma abbracciano la fotografia e la performance più in generale. Dopo la collaborazione con la compagnia IT Dansa e quella con il Nederlands Dans Theater II, mette in piedi La veronal – mutuando il nome da un antidepressivo adoperato per tentare il suicidio da Virginia Woolf, autrice di cui è profondamente appassionato – pensandola come un organismo ramificato su più fronti di creazione: vi figurano infatti danzatori, musicisti e artisti di fotografia, cinema e letteratura. Dopo Los Pájaros Muertos, l’ensemble – su ispirazione di Kieslowski – dal 2009 si dedica alla composizione di una serie di pezzi concepiti come facenti parte di un “decalogo” e tutti costruiti a cominciare da uno spunto geografico (città o paesi) riferibile alle ambientazioni o alle suggestioni argomentative. Fra questi nel 2013 la creazione di Siena, che viene presentato al Teatro Palladium all’interno di Romaeuropa Festival. Lo spettacolo trova nell’Umanesimo – periodo storicamente denotato dalla riappropriazione della centralità individuale – il punto di inizio per attraversare e verificare la consistenza corporea (qui imbrigliata in tenute da schermidori, sorta di ossimoro poetico di un annullamento affermativo) come entità fondamentale del vivere e, servendosi del supporto di citazioni iconografiche, musicali, politiche e intellettuali, conduce tale percorso del pensiero sino ai nostri giorni con una gran quantità di input.
L’obiettivo appare già nelle intenzioni di formazione della compagnia quello di sondare le possibilità comunicative offerte da una pluralità di canali e nella commistione con i nuovi media, in modo da generare una più ampia dimensione espressiva che abbia forte e nuova potenza narrativa. La base parte naturalmente dal corpo e dal movimento coreografato, riletto in chiave contemporanea seppur nella conservazione della precisione tecnica: incipit che passano per la scomposizione delle dinamiche proprie del balletto canonico, incontrano i linguaggi cinematografici, teatrali o artistici in senso più ampio costruendo in fine un’idea che fa dell’anatomia concreta un tramite di conduzione del senso. Tali cardini nel processo di lavoro sono apparsi chiari già nell’osservazione del laboratorio condotto a Venezia la scorsa estate durante la Biennale Teatro, riportati di seguito come illustrazione di un’esperienza che può essere utile ad affrontare la performance oggi in scena a Roma.
Disposti in cerchio, a fila doppia, i trentanove laboratoristi raccolti nella palestra della scuola media Calvi ai Giardini, seguono una danzatrice che conduce la sequenza di movimenti sulle note di una marcia funebre o nel silenzio. Anatomie forgiate di danzatori e altre meno scultoree, tratti fisiognomici di provenienza e agilità difformi che passano dall’armonia alla rigidità, dal flusso organico alla fatica si ricompattano nella processione di tanti volti. Una camminata lenta, calibrata fa da trait d’union tra le figure e quando il circolo si interrompe è inevitabile chiedere precisazioni, defaticare i muscoli o semplicemente scambiare qualche parola per decomprimere la concentrazione. Ad osservare lo sviluppo del workshop, si delineano sin da principio alcuni punti nodali che riguardano tanto il processo specifico – in funzione della circostanza “pedagogica” –, quanto la prassi di composizione. Basta lo sguardo per enucleare un glossario in cui ogni termine corrisponde a un passo e al suo relativo sviluppo dinamico: “giselle”, “saluto”, “processo” e “canone” fra di essi. Nell’ordine elicoidale, l’esperimento dell’anatomia nello spazio distingue l’uso della parte dorsale da quello degli arti inferiori: infatti pare evidente che se i piedi e le gambe si adoperano nel sondaggio ritmico del contatto al suolo, la parte alta del corpo invece agisce la dimensione aerea su vettori precisi per la testa e le braccia, mentre la linea cranio-sacrale è gestita tra sbilanciamenti e controllo su un baricentro che sembra posto all’altezza del plesso solare.
Nella fase successiva Marcos Morau è a capo di una schiera compatta. Illustra i passaggi della partitura e, indicando spirito e qualità del moto, precisa «you’re moving, not travelling»; ogni presupposto dell’azione sta nella domanda: «donde estoy mirando?»; le movenze si dispongono lungo assi stabiliti (“line”). I performer restano liberi di ripetere questa variazione due volte, conquistano lo spazio entrando o uscendo dall’azione quando lo ritengono opportuno, ancora una volta nell’intermittenza dello sfondo melodico. La praticabilità dell’ambiente diventa multidirezionale e, nonostante la reiterazione, la qualità dell’energia sembra rimodellarsi in una nuova matrice: il corso del lavoro è autonomo e in connessione allo stesso tempo, la destrutturazione del canone coreografico si ricompone a definire un ulteriore protocollo, pariteticamente preciso. L’impulso cosciente riesce nell’impresa provvidenziale per la coreutica di comunicare tra narrazione e anti-narrazione, lirismo e semplicità.
Marianna Masselli
Parte di questo articolo è apparso sul quotidiano La Tempesta alla Biennale Teatro 2013