Il trasgressivo, provocatore e dissacrante Jan Fabre torna nella capitale presentando all’interno del Romaeuropa Festival due spettacoli che negli anni Ottanta cambiarono le modalità dell’agire e del fruire teatrale, mettendo in crisi e riformulando il concetto stesso di performance. The Power of Theatrical Madness, datato del 1984, verrà riallestito il 16 e il 17 ottobre al Teatro Eliseo, mentre This Is Theatre Like It Was to Be Expected and Foreseen – lavoro col quale il giovane artista si fece conoscere nel 1982 creando scalpore e polemiche per il tipo di teatro che non solo presentava, ma rifondava – sarà sempre al Teatro Eliseo il 20 ottobre.
In una serata di inizio autunno, ospitate in uno dei bar storici del quartiere Pigneto a Roma, abbiamo incontrato Giulia Perelli, scelta tra oltre 500 performer per il riallestimento di questi leggendari spettacoli. La “musa italiana” la troviamo ad aspettarci seduta a un piccolo tavolo del cortile, dove inizia a raccontarci la sua folle e surreale avventura…
All’estero è molto diverso il concetto di trasgressione. Abbiamo toccato tantissime piazze in quest’anno e mezzo di tournée, non solo in Europa ma anche in Brasile o in Argentina, e devo dire che ci sono state reazioni diverse tra loro ma sempre forti. Uno dei due spettacoli è molto violento e durante la prima a Vienna hanno addirittura chiamato la polizia, pensavano che ci fosse un diverbio tra di noi, gli spettatori hanno iniziato a urlare di tutto, e io ero terrorizzata perché da italiana non ero abituata a vedere il pubblico reagire in questo modo. La domanda che viene da farsi è: «Ma sta succedendo davvero?» Siamo in teatro quindi si presuppone che ci sia dietro un artificio, ma gli spettacoli di Jan Fabre sono anche performance, qualcosa che si vive sul momento con una presenza totale in quell’istante.
Come hai lavorato affinché quelli che apparivano inizialmente come tuoi limiti potessero invece diventare possibilità di ricerca e fonte di conoscenza?
Io sono una persona molto concettuale, allora per compensare questo lato cerco di lavorare fisicamente, così da tenere un po’ il corpo coi piedi per terra e vivere sensorialmente un’esperienza. Quindi quello che ho cercato di fare è stare lì con la più totale semplicità, condizione che poi, volente o nolente, raggiungi, perché a certe soglie di dolore o fatica quello che senti di essere è un essere umano con dei limiti e delle impotenze ed è bellissimo. È la potenza dell’impotenza, il fatto di non poter volare. Lui ci chiede «volate», e dopo mezz’ora di prove estenuanti senti di vivere dentro quella fatica. Anche la domanda «perché lo sto facendo?» acquista altro senso, perché senti che è legato profondamente a qualcosa che ricerchi sempre: in un gesto così semplice come può essere il gioco di provare a volare, ritrovi in realtà tutti i conflitti e tutti i problemi che hai nella vita. Quando arrivi a quel punto in cui dici che non ce la fai, però continui a vivertelo. È arrivare con un gesto semplicissimo a un conflitto che è esistenziale. C’è una scena in cui un performer ha un coltello da macellaio e l’altro niente. Sono entrambi bendati e entrambi camminano sul bordo del proscenio e quando si incontrano a metà, colui che ha il coltello in mano, cantando, lo scaglia contro l’altro che deve abbassarsi prima d’essere colpito. Ciò ti provoca la sensazione di star per morire. Perché, ci si chiede, devo dare tutto a questo lavoro? È un lavoro, un’arte? Io ho scelto veramente di fare questo?
Ci sono stati momenti in cui non ti sei sentita all’altezza di incarnare l’idea di “Guerriero della Bellezza”?
Sempre, anche adesso. Anzi, all’inizio non volevo esserlo, mi chiedevo perché avessi lottato così tanto nella mia ricerca d’attrice per essere più umana, più sensibile. I guerrieri della bellezza si vedono specialmente nello spettacolo The Power of Theatrical Madness, e si sente che l’ha ideato quando era giovane perché davvero noi sembriamo dei che non muoiono mai. All’inizio ero molto arrabbiata per questo motivo con Jan, perché lui ci metteva davanti a un rischio vero, reale, forte. Lui ti chiede il sangue, ti chiede tutto; un attore dovrebbe conoscere la paura, mettersi nelle condizioni di spogliarsi della propria armatura per essere ancora più impaurito, più umano, e adesso lui mi chiede di essere una dea che non muore mai? Io so che morirò e so anche quanto desideri essere umana. Avevo paura di perdere la sensibilità, di dovermi corazzare. E invece poi ho scoperto di volerla vivere.
Come si sono svolti i provini, cosa ti hanno chiesto?
I provini si sono svolti in vari luoghi e in varie fasi. Non mi sono preparata perché nessuno sapeva niente di specifico se non che oltre al curriculum avremmo dovuto compilare diverse lettere motivazionali. Hanno partecipato attori di tutto il mondo e a Roma ci sono state due o tre giornate nelle quali ogni ora Fabre vedeva circa una trentina di persone. Ha chiesto molte scene dello spettacolo, lui cerca molta energia, cerca dei “mondi”. Poi fra i vari gruppi sceglieva qualcuno che si sarebbe ritrovato la sera per altre tre ore assieme. Con coloro che superavano quest’altra fase ha voluto parlare personalmente soprattutto per quanto riguardava la motivazione. Infine ci siamo ritrovati ad Anversa dove lui ha il Troubleyn – il suo Centro di produzione di arti performative e visive – e da 33 attori che eravamo ci siamo ritrovati in 14, di cui 8 partecipano, come me, a entrambe le messe in scena.
Come si inserisce questa esperienza all’interno del tuo percorso attoriale? Quanto la tua formazione ti è stata utile e quanto hai dovuto invece decostruire?
Il mio è stato un percorso molto eterogeneo, ho iniziato per esempio con il musical e poi al Teatro della Limonaia di Firenze con Barbara Nativi. Penso che quando una persona intraprende una propria ricerca, poi ci possano essere tanti strumenti con i quali avviarla e da poter utilizzare nel suo percorso. La pittura è stato un elemento determinante, mio padre è un pittore e già questo mi ha permesso di dar forma a un personale senso estetico. Diciamo che la parte più impegnativa è stata studiare cinema, in quanto la macchina da presa è lì e ti scruta, la recitazione cinematografica non ti permette di scappare. In relazione a questo aspetto ho dovuto imparare a decostruire nel lavoro con Jan Fabre. Lui non vuole naturalezza, richiede piuttosto la costruzione di una musicalità: sei vero ma allo stesso tempo devi saper trasmettere. Bisogna avere la tecnica, è quella che fa la differenza. Fabre insegna questo, nel suo lavoro c’è grande tecnica e disciplina e ci si confronta costantemente con i propri limiti: abbiamo sul palco 50 marker, ci muoviamo in modo sincronico, iniziamo e finiamo con un respiro tutti assieme. Potenza ed energia in un preciso istante. Nel mio lavoro ho sempre ricercato un’autenticità, una verità, una presenza, e proprio questa intimità l’ho ritrovata con Jan Fabre e con la performance. All’inizio avevo delle difficoltà è stata una bella lotta, poi ho capito cosa fare: innanzitutto essere una cosa sola con tutti gli altri, questo è importante perché il gruppo, nonostante le singole differenze, deve muoversi insieme, come un unico corpo. Unicità nella molteplicità.
È cambiato qualcosa nella percezione di te stessa come attrice e come persona dopo essere approdata al lavoro di Fabre?
In realtà, per quanto fosse evidente la diversità culturale tra me, italiana, e il suo lavoro che inevitabilmente risente del suo essere belga, io mi sentivo molto a casa, sentimento che non provavo qui in Italia. Una mia anima surrealista, che qui non veniva riconosciuta, lì veniva considerata una forma d’arte. La loro sensibilità mi ha fatto sentire a casa. In Belgio viveva una parte di me alla quale inizialmente non sapevo dare nome. Poi ho imparato a farla venir fuori dandole un valore, imparandola a conoscere. Ho fatto una grande esperienza sia umana che artistica, che per me sono la stessa cosa, e ora non posso dire di sentirmi più forte, ma so per certo di conoscere più parole, e questa forse si chiama maturità. Dopo aver preso coscienza di questo, mi permetto di andare più a fondo nelle cose e più seriamente. Considero il mio pensiero più veloce del corpo e lì dove è in grado di arrivare, quello è per me un movimento artistico.
Lucia Medri e Viviana Raciti