Recensire uno spettacolo come Doppio suicidio d’amore a Sonezaki è semplicemente impossibile. Si può solo lasciare qualche nota storica e qualcuna di racconto di una serata che ha avuto di fatto il potere di trascinarci in altro tempo e altro spazio. Il testo porta la firma di Chikamatsu Monzaemon, uno delle figure più importanti della letteratura giapponese, autore insuperato per il teatro kabuki e bunraku. Quest’ultimo è il nome del tradizionale teatro di marionette nipponico, in cui i pupazzi – veri e propri capolavori di artigianato – vengono animati da attori completamente vestiti di nero. A questo genere appartiene lo spettacolo che ha aperto la stagione del Teatro Argentina come ultimo evento delle celebrazioni per il cinquantenario dell’Istituto Giapponese di Cultura a Roma, esattamente 310 anni dopo il suo debutto al Teatro Takemoto, aperto nel 1684 a Ōsaka dal cantore Takemoto Gidayū.
Questi – spiega il docente di Lingua e letteratura giapponese Bonaventura Ruperti nel preziosissimo programma di sala realizzato dal Teatro di Roma e dall’Istituto Giapponese – elaborò un nuovo stile di narrazione altamente drammatico, il gidayūbushi, perfetto per la altissima «complessità tragica» dei drammi di Chikamatsu che con il Doppio suicidio affronta per la prima volta (non l’ultima, nel 1720 sarà la volta de Il castigo del cielo ad Amijima) il tema degli amanti suicidi.
Il mercante Tokubei ama la cortigiana Ohatsu e vorrebbe riscattarla, contro il volere del perfido zio che vorrebbe mettere invece le mani sulla sua abilità di commerciante legandolo a un’altra nipote. Sarà il risarcimento di un prestito il pretesto per ricattare Tokubei, il quale – puro di cuore – pur una volta riuscito a racimolare il denaro, si intenerirà alle disperate richieste di credito dell’amico Kuheiji. Questi, che aveva promesso a sua volta di restituire il denaro, calunnierà Tokubei denunciandolo di aver falsificato la cambiale. Con l’onore ormai infangato e di fronte all’impossibilità di riscattare la propria posizione sociale e la purezza del suo amore per Ohatsu, i due amanti decidono di togliersi la vita insieme, per abbandonare un mondo che non sembra accordare giustizia.
Nel programma di sala si racconta come, in seguito alla prima rappresentazione, si assistette a una «impressionante diffusione di suicidi tra le giovani coppie – scrive il produttore dell’allestimento Sugimoto Hiroshi – il cui amore era ostacolato dai vincoli imposti dalla rigida morale feudale», tanto che vent’anni dopo il governo dello Shogun dovette vietare le rappresentazioni dell’opera e proibire i funerali agli amanti suicidi, cosa che – secondo la dottrina buddhista – avrebbe impedito loro «il compimento del passaggio nell’Aldilà». Proprio questo divieto fece perdere le tracce dell’opera fino al 1955, quando ormai il ricordo della recitazione e delle coreografie dei burattini era lontano. Sugimoto ha ripreso in mano lo storico sewamono (questo il nome dei tradizionali drammi in 3 atti ispirati a fatti di cronaca romanzati), tentando la fusione elementare tra tradizione e innovazione: e allora ecco che la vicenda di Tokubei e Ohatsu, così simile a certe epopee tragiche à la Romeo e Giulietta, riprende vita dentro un ambiente ibrido, in cui musicisti tradizionali e animatori sopraffini si muovono in una scena minimale eppure altamente avveniristica, davanti a uno schermo alto e scuro, colorato a volte da proiezioni video raffinate ed eleganti.
In occasione di questo evento di rappresentanza, nel foyer dell’Argentina, tirato a lucido fino all’ultimo angolo, il rosso dei velluti ha fatto stavolta sfondo a volti dai lineamenti orientali, sorrisi bianchissimi, doppiopetti brillanti e corpi di donna minuti e leggiadri, avvolti nel complicato abbraccio dei kimono. Una lunga fila ci immette al desk dove, in cambio di un documento d’identità, possiamo ritirare le cuffie per la traduzione simultanea. Peccato che il lussuoso servizio di interpretariato – eseguito da una zelante voce femminile – verrà interrotto tra primo e secondo tempo, a causa di un problema tecnico che ci ruberà il piacere del poetico e serrato testo di Chikamatsu. E però alla poesia delle parole si è potuta così sostituire quella dell’immagine: nonostante gli insopportabili sospiri di qualcuno in sala, abbiamo potuto abbandonarci al ritmo forsennato della narrazione, scritta nei toni della voce con vertiginosi cambi d’inflessione e complicate smorfie del viso; abbiamo avvertito i colpi di diaframma dei suonatori di shamisen (il tradizionale liuto giapponese) nel far vibrare note che al nostro orecchio occidentale parevano scordate, così in accordo, invece, con le modulazioni del cantore; abbiamo sorriso, disarmati, di fronte alla perfetta fluidità dei movimenti dei burattini, sottilmente imitati dagli stessi animatori (tre per ogni pupazzo), in una danza leggiadra. Ci siamo commossi sinceramente alla vista di Tokubei che pugnala Ohatsu alla nuca, prima di tagliarsi la gola franando corpo su corpo.
Aveva ragione una giovane spettatrice in camicetta bianca e gonna e scialle nero che, interrogata all’uscita su tre aggettivi che definissero lo spettacolo, ha fatto sorridere gli occhi verdi rispondendo: «essenziale, poetico, complesso».
Sergio Lo Gatto
DOPPIO SUICIDIO D’AMORE A SONEZAKI
titolo originale Sonezaki shinju tsuketari Kannon meguri
di Chikamatsu Monzaemon
produzione e direzione artistica Sugimoto Hiroshi
con Takemoto Tsukomadayu, Tsurusawa Seiji e Kiritake Kanjuro
composizione/direzione musiche Tsurusawa Seiji
coreografia Yamamura Waka
video Sugimoto Hiroshi e Tabaimo
foto di Hiroshi Sugimoto, courtesy of Odawara Art Foundation
Bellissimo pezzo complimenti! Si avverte la grande intensità di quella cultura nella sfera sociale anche del mondo contemporaneo. Già durante la tournée orientale il grande intellettuale nipponico Unsekapi Vankatsu disse “ner millessecento a vede sti pupazzi de tacchemoto s’ammazzaveno a coppia, oggi a legge quer pupazzo de moccia che l’unico lucchetto bono sarebbe quello pe mettelo ar gabbio, a le coppie le suciderebbe io”