Nell’iniziare L’uomo senza qualità, Robert Musil, immenso autore austriaco, avverte fin da subito che «non sarà fatto alcun serio tentativo per […] entrare in competizione con la realtà». Poi chissà se intendesse la competizione come un tentativo di appaiarla o sovvertirla, ma questo poco conta, quel che invece è assai importante è che lo stesso tentativo – serio o meno – è invece intrinseco a qualsiasi gesto dell’arte, tentativo che sia di sovversione o congiungimento, non è che confronto estremo, e dunque, competizione. In questa aspra lotta “eternamente impari” entrano i Colossal Kitsch Teatro, compagnia romana fondata da Fabio Morgan, Leonardo Ferrari Carissimi – registi e interpreti – Andrea Carvelli – scrittore – costruendo il loro Being Hamlet, che unisce l’eco biblico della Genesi alla caduta dell’uomo nell’uomo che è l’Amleto shakespeariano.
Poco mi interessa un impatto drammaturgico, una trama riconoscibile che tanto di sé sappia raccontare, e non mi interessa perché non interessa neanche loro. Per un mio vizio di forma dirò che accostare il dubbio di Adamo di fronte alla mela all’amletismo del famoso monologo è scelta che ho apprezzato molto; dirò del testo di Carvelli, assetato, scritto interamente in sesta rima; dirò dell’uso estremo del video in una sala di teatro, come oscurità travestita da rivelazione, e per questo la dirò più pura; forse dirò dei dubbi, quelli miei, sulla eccessiva dilatazione che, senza invece dubbi, è parte del piano di sovversione che include anche l’ignaro spettatore, anzi, non presuppone quasi ci sia. Mi dicono questa la purezza dell’arte, ho provato a dir loro che l’arte è forse conflitto, coito e non partenogenesi, mediazione forse. Ma ammetto, di fronte alla loro ferma difesa, di restare dubbioso.
Questo spettacolo è il primo, non in ordine, di una serie annunciata di trentatré. Sì esatto, doppio numero perfetto, gli anni di Cristo, i canti delle tre cantiche della Commedia tranne il prologo che fanno cento…e non basterebbe questo per comprendere e valutare la densità e l’ambizione del progetto. E questo è il nucleo della questione: l’ambizione sfrontata e forsennata di questi giovani artisti è indecorosa, folle, infestata come le case dai fantasmi. E chissà mai quanto rischiosa. Sì, perché un progetto di per sé così esplosivo, nella detonazione ha in sé stesso il rischio di coinvolgere, nella medesima deflagrazione, chi ne innesca la miccia. Ma loro ne sono del tutto consapevoli, forse lo sono per un seme di alterazione che li spinge dove il buio ha già sconfitto la luce, ma tanto basta a farmi dire che non sentivo parlare di un simile desiderio di incidere da tanti altri e lontani progetti sovversivi, intesi a riunire l’arte e la realtà passando dal retro, lasciando all’estremizzazione e il suo culto l’intero comparto espressivo. Diverso è l’impatto dal tentativo, ma questo per ora è in preventivo: si legge, nelle loro intenzioni, la loro stessa sconfitta. Lo spettacolo non è ancora espresso, il talento non lo è del tutto, ma l’attesa vale il tempo che ci vorrà. Il disagio esistenziale muta in artistico, si fa figurativo per quella ovvia competizione con il reale, anche se sconfessata negli obiettivi, e diviene tutto e il suo contrario, male e bene, genesi e apocalisse, sacralità e iconoclastia.
Simone Nebbia
visto alla Sala Orfeo del Teatro Orologio
Roma