Un giardino segreto aperto al passaggio di una piccola comunità, nel teatro che resta all’inizio di questa giovane estate. Tra un Fringe capitolino che promette e non sempre mantiene e sotto gli assalti frontali di una programmazione “cocomerara” tra le ombre del Colosseo e le arene al di qua e al di là del Tevere, una boccata d’aria arriva da progetti più piccoli, più nascosti, per certi versi più sinceri. Come se – vizio di sistema anche questo – ci venisse ormai facile immaginare che il meglio appartenga non più alla novità, ma alla mancata pretesa, al tentativo di portare sulla scena e dentro gli occhi dello spettatore piccole suggestioni, di quelle che volentieri si gustano in una mezza serata, incastrate tra un aperitivo e una pizza a Trastevere.
Nel caso di Andando verso Frida di Viviana Di Bert era stato organizzato addirittura un piccolo buffet “a tema” messicano, come anticamera di comunità a un esperimento magari non del tutto risolto ma di certo particolare, che ha saputo sfruttare le potenzialità di un luogo accogliente. Una sala non piccola quella del Teatro Spazio Uno, attrezzata con gradinate a scendere e con un palco dalle larghe dimensioni, eppure qui impiegata con intenzioni altre, scardinando il sistema di fruizione frontale.
La vita controversa e poeticamente rivoluzionaria della celebre pittrice messicana Frida Kahlo, il suo amore disperato e donchisciottesco con Diego Rivera, il suo impegno civile in un mondo che se ne andava verso lo sgretolamento, guizzo di genio dentro quell’“America minore”, trascinata dalla passione senza posa, dall’«urgenza della vita»: Viviana Di Bert cerca di condensare lo slancio biografico di uno dei personaggi più trasversali dell’arte del Novecento in otto monologhi, distribuiti tra la sala e lo splendido giardino e aperti allo sguardo parallelo del pubblico.
Prima dell’inizio dello spettacolo, due parole con chi ha curato la comunicazione e con la regista stessa ripescano termini come “evento” e “happening”, quella forma di “accadimento teatrale” coniata dallo statunitense Allan Kaprow alla fine degli anni Cinquanta e «organizzata in compartimenti», dunque senza badare a una reale consequenzialità della storia.
E così, scanditi da una mezza strofa di Gracias a la vida di Violeta Parra, partono insieme gli otto monologhi (sette femminili e uno maschile) e insieme si chiudono, lasciando al pubblico la possibilità, in otto ripetizioni, di raccogliere i vari frammenti di questa sorta di testamento. Non tutti gli interpreti sono professionisti della recitazione e questo si nota, ma si nota anche la cura certosina con cui Di Bert vuole ricreare un’atmosfera, truccando e abbigliando i corpi delle attrici nel rispetto totale di quella profusione di autoritratti con cui Frida disegnava l’evolvere della propria coscienza d’artista e, insieme, della propria posizione nel mondo contemporaneo. Dell’arte e della società. E ciascuna attrice e attore agisce in uno spazio ristretto e segnato ciascuno da un dipinto, riprodotto a stampa e affisso alle spalle del performer. Si crea presto un cerchio di attenzione e, più interessante ancora del testo (che spesso resta bello ma anacronistico), è il suono delle voci che nel frattempo snocciolano gli altri frammenti, per forza di cose cantilenanti nel ritmo che ne conserva la durata. Ed è affascinante far caso ai vari parlati quando si spengono uno a uno, come carillon che esauriscono la carica.
La deriva un po’ meccanica viene ben compensata dal pensiero d’insieme e dalla cura semplice dei particolari visivi; a rendere più incisiva l’intera operazione potrebbe invece servire un più stretto contatto tra i performer e il pubblico. Pur risultando chiaro il carattere di “anima vagante” che la regia ha voluto assegnare a ciascuna figura, alla rottura della frontalità della fruizione occorre però un passo avanti nel rapporto esecutore/fruitore, magari anche solo riscoprendo il contatto di occhi negli occhi, di per sé segno fisico ed empatico.
Andando verso Frida è il prodotto di una piccola e vincente operazione di comunicazione, costruita intorno al fascino di un personaggio-simbolo e animata da uno spirito magari un po’ retrò ma genuinamente “sperimentale”, come si definisce la compagnia, in grado di andare, oltre la forma, a ritrovare la natura di evento senza rinunciare alla ricerca.
E nella quiete di una serata umile come questa è rassicurante osservare l’avvicendarsi di un pubblico nutrito ed esterno ai consueti appuntamenti del teatro d’arte romano.
Sergio Lo Gatto
visto al Teatro Spazio Uno nel luglio 2013
ANDANDO VERSO FRIDA
regia e idea scenica Viviana Di Bert
costumi Alessandra Pinzari Milani
luci Gemma Nucci
con Stefano Alori, Gloria Annovazzi, Alida Felice, Nadia Fregonas, Laura Ghiara, Francesca Margognoni, Isabella Sola, Teresa Vanessa Topazio