HomeVISIONIRecensioniAtlante XXIX – Quel che resta o la parola in teatro

Atlante XXIX – Quel che resta o la parola in teatro

parole parole parole
parole parole parole

«Chi può mai sapere come arrivano sulla scena certe parole…». Già, come arrivano sulla scena le parole? Pascal Rambert, autore francese approdato in Italia grazie alla lungimiranza del progetto Face à Face di PAV e attualmente impegnato nella versione italiana del suo Clôture de l’amour in scena con Anna Della Rosa e Luca Lazzareschi, di parole non abusa, ma pare ne conosca la complessità e il pericolo quando si compattano a farsi testo. Testo teatrale, per inciso. Dove non ha sede il romanzesco e dove la realtà a essere indagata non è quella quotidiana e apparente ma l’intima segreta essenza che in scena, inarrestabile, affiora. La lettura del volume omonimo pubblicato dalla Fondazione Emilia Romagna Teatro, con l’intero testo tradotto da Bruna Filippi, è un’occasione per parlare ancora di drammaturgia e ragionare degli effetti – prodotti o mancati – sulla scrittura italiana contemporanea.
Una storia d’amore sta finendo. O meglio. Sta portando sul campo di battaglia i resti di una battaglia precedente. Sta mostrando il corpo morto di un sentimento annichilito, estinto. Due lunghi monologhi alternati fanno dialogare due stadi di un dolore primitivo, privato delle lacrime, asciutto fino all’asfissia. Un dolore regredito allo stato molecolare. Non c’è dialogo, né consolazione. C’è tutto quel che si vede. Più niente.

La forza del testo di Rambert, che cura come nell’edizione francese anche la regia, risiede in una doppia, vicendevole radice: parla d’amore e parla del teatro. I due attori si chiamano come nella loro realtà e sono – nella vita e nel testo – due attori. Questo doppio filo mette a confronto la realtà e la finzione, il corpo presente e la lingua sfuggente, trovando il punto di contatto nell’unico ambito in cui realtà e finzione si completano a dirsi verità: in se stesso. Per questo Rambert affonda le sue parole nell’origine esistenziale e con coraggio ne cava fuori la sostanza ultima, pone allo sguardo le ossa e i fasci muscolari di un corpo, non la pelle: conclude, celebra un funerale senza alcuna nota di requiem.
Vero tutto ciò nei contenuti, verissimo è nella forma: il doppio monologo su rette ormai parallele compone due espressioni distinte di parti di copione non conciliabili, in cui l’autore rintraccia il dissidio fra se stesso e la proiezione sull’altro. Come nell’amore, come in teatro.

In cosa differisce la scrittura dei nostri autori? Salvo pochi casi eccellenti, la nuova drammaturgia italiana si ammala distrattamente di esterofilia e non sa parlare del teatro, compone ambienti da un riflesso diretto di realismo e li spinge in un immaginario cinematografico in cui far agire inerti pantomime di dialoghi e situazioni, ignora cioè il teatro pensando di farne, lo elude dimenticando che è  “tutto già qui” e da esso si parte per ogni altro luogo. «La parola – dice proprio Rambert – passa dentro il corpo: io scrivo per questi esseri umani, pensando a voci e corpi precisi, non con l’immaginazione». Nella sua scrittura, infatti, ogni elemento esterno come il cinema o l’uso di termini stranieri ha come un carico di disgusto, come un’accezione negativa, un rimprovero, sembra dire: noi siamo qui, in teatro, che è la nostra vera realtà, perché dobbiamo infilarci in ambienti non naturali e dentro lingue che non ci appartengono? Nell’inizio di una storia d’amore, cova segretamente la sua fine, come il teatro è un continuo dibattito fra ciò che esiste e ciò che non esiste. Si può dire che teatro è la nascita di una storia d’amore che inizia a morire? Si può, perché le parole non finiscono in scena. Erano tutte già lì.

Simone Nebbia

Guarda la fotogallery di Futura Tittaferrante

Leggi gli altri viaggi di Atlante

Questo articolo è apparso sul numero Maggio/2013 dei Quaderni del Teatro di Roma. Per gentile concessione.

Telegram

Iscriviti gratuitamente al nostro canale Telegram per ricevere articoli come questo

5 COMMENTS

  1. «Salvo pochi casi eccellenti, la nuova drammaturgia italiana si ammala distrattamente di esterofilia e non sa parlare del teatro, compone ambienti da un riflesso diretto di realismo e li spinge in un immaginario cinematografico in cui far agire inerti pantomime di dialoghi e situazioni, ignora cioè il teatro pensando di farne, lo elude dimenticando che è “tutto già qui” e da esso si parte per ogni altro luogo».
    Simone, me lo spieghi un po’ meglio che davvero non ho capito cosa intendi? Grazie

  2. Caro Fabio, in questi ultimi mesi (ma non poi da così poco come sai) ho avuto modo di riflettere abbastanza sulle pratiche e le intenzioni della drammaturgia italiana, soprattutto dei tentativi di impianto che coinvolgono la seduzione di alcune drammaturgie estere. Negli “Atlante” precedenti un paio di volte almeno, su Gran Bretagna e Argentina. Mi sono occupato specialmente (e qui veniamo al punto) della trasmissione di strumenti e di esperienze, posto che questo sia totalmente e realisticamente possibile. La riflessione quindi nasce soprattutto da questo aspetto, non soltanto dalla visione. Ma anche in quel caso – e vedo molti spettacoli – mi sento di poter dire che la maggior parte dei testi che leggo e vedo in scena hanno a volte questo rapporto di filiazione malata con processi esteri, a volte un debito cinematografico di particolare piattezza, ma questo l’ho già detto, quel che invece qui mi premeva dire è che la drammaturgia non sa parlare del teatro, cosa che Rambert invece ha saputo mirabilmente fare a mio avviso e che a mio modo di vedere è l’unica forma di vita possibile e vera in scena.
    Non ho citato casi, non voglio citare casi. Ho parlato di casi eccellenti e di certo non voglio generalizzare e ci sono buone esperienze anche meno conclamate senza dubbio. Ma per una volta mi sono concesso di fare un discorso generale, di respiro più largo. A volte mi piace fingermi libero di parlare dimenticando i quartieri, grandi o piccoli che siano, e parlare di mondo.
    Spero sia più chiaro.
    Se poi la domanda non era quella posta
    allora ho sbagliato risposta.

    A presto
    Simone

  3. Generalizzare sulla drammaturgia italiana e liquidarla, banalizzandola, in un paio di righe, certamente non giova al nostro teatro, a quell’esperienza di scritture complesse, ammirate, invidiate spesso, e, come al solito mal-trattate, cioè mai indagate con seri strumenti culturali, analitici, che diano serio conto della loro derivazione, della loro territorialità, della differenza e della loro ricchezza. Siamo sicuri che sia proprio la nostra drammaturgia ad “ammalarsi distrattamente” di esterofila? A me sembra che l’autore dell’articolo sia molto generoso nei confronti di un testo che in Italia ha corrispettivi sicuramente superiori.
    Vi prego, non disegnate Atlanti se non conoscete geografie e lingue, non compilate topografie di luoghi i cui confini sono lontani dai vostri occhi e dalle vostre mani.

  4. Gentile Carlo, mi dedico esclusivamente ai contenuti e tralascio i suoi spunti accusatori perché lei non conosce me, io non conosco lei, discutere animatamente sulle forme in un commento nascosto in un giornale nascosto mi pare ridicolo.
    Come citavo in commenti precedenti, tuttavia, spesso di drammaturgia mi occupo e cerco di comporre un’interpretazione da ciò che vedo e da ciò che leggo. Se ho voglia di dire che, tra le molte cose che vedo, raramente trovo testi di pregio che siano rappresentativi, non mi sento in assoluto di liquidare e banalizzare, almeno per il fatto di dirlo in tante salse in molti articoli che scrivo. In questo caso poi ho voluto confrontare questa mia convinzione (mia, che firmo) con un testo che ritengo invece valido, provando a spiegare perché lo è, a mio modo di vedere. E soprattutto che cosa lo differenzia da tanti testi italiani che mi capita di analizzare e ai quali non credo giovi lo status di specie protetta. Ritengo ci siano numerosi punti su cui i testi italiani si dimostrano molto poco in grado di interpretare il mondo contemporaneo, non tanto nei contenuti ma nelle forme che ricalcano ora il cinema ora la letteratura, ora esperienze drammaturgiche estere che hanno altri contesti e altre ricezioni. Se una drammaturgia “italiana” si è andata costruendo è decisamente più in direzione di quella specificità territoriale di cui parla lei, ricca in molti casi di una componente dialettale che ne mostra da un lato il valore, dall’altro il difetto di essere comunque parziale.
    Quindi, in conclusione, resto convinto di ciò che ho detto e continuerò a permettermi di disegnare atlanti o qualunque altra cosa rispetti i miei pensieri su certi argomenti che mi stanno a cuore. Mi dispiacerà, ma continuerò anche se non avrò concesso il lustro del suo permesso.

    Simone Nebbia

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here

Pubblica i tuoi comunicati

Il tuo comunicato su Teatro e Critica e sui nostri social

ULTIMI ARTICOLI

Orecchie che vedono: la danza che si ascolta a Gender Bender

Al festival bolognese Gender Bender molte sono state le proposte di danza, tra le quali sono emerse con forza il corpo resistente di Claudia...