Nel racconto del mondo la successione che lega i padri ai figli è di forza determinante. Dell’anno passato è un film straordinario del trentenne esordiente Benh Zeitlin: Beasts of the Southern Wild, malamente tradotto in italiano con Re della terra selvaggia; in una terra-mondo oltre i confini della civiltà riconosciuta, ammessa da chi “ne fa parte”, una bambina e suo padre compiono i passi di quella successione, l’uno impartisce all’altra la sequenza di azioni per la sopravvivenza e perché si perpetui l’evoluzione di cui – anche loro – “fanno parte”. Allo stesso modo in questo L’arma, testo di Duccio Camerini finalista al 50° Premio Riccione per il Teatro con il titolo How Long is Now e che ora vede la scena in prima assoluta al Teatro Vascello con la regia di Aureliano Amadei, un padre e una figlia compiono il gioco della sopravvivenza, nel selvaggio lontano da un altro e più invadente selvaggio, costituito dalla società civile che non avverte e ignora la loro volontaria emarginazione.
Un cielo di confuse nuvole nere fa da stretto fondale a un’area distesa nella larghezza orizzontale del palcoscenico; nel mezzo è una pedana rialzata con una scala che ascende chissà dove, agli angoli ceppi di tronco e un’accetta conficcata nell’anima del legno; altri fusti d’albero tagliati a diverse misure sono sparsi lungo la scena, come crescite violate, mutilate, sono puntellate di strumenti tecnici che hanno reciso la loro evoluzione naturale, giacciono attorno alla pedana semovente che gli attori fanno muovere lungo l’asse orizzontale, grazie a una fune che l’attraversa a mezza altezza. In un angolo, invece, è un esile alberello, sottile e secco ma capace di resistere ancora intero: sarà di fianco a esso che i tre attori inizieranno a parlare, fare racconto di una storia difficile e violenta ma che conserva i caratteri primigeni dell’umanità.
Giorgio Colangeli, attore capace di incarnare con efficacia questa figura controversa, è un uomo idealista e volitivo, cui capita l’estrema sorpresa di trovarsi di fronte al parto selvaggio di una donna che letteralmente “sputa fuori” una bambina fra le sue braccia, la rifiuta e fa in modo che lui se ne ritrovi responsabile. L’uomo decide allora che è giunto il momento di mettere in atto il suo piano: si perderà per i monti dove inizierà una nuova vita senza regole imposte, dove libero da costrizioni e burocrazie potrà dedicarsi alla crescita “sperimentale” di questa bambina, come fosse la creatura di un nuovo derivato futuro. La bambina, una giovanissima e agguerrita Mariachiara Di Mitri, crescerà senza nome e senza avere rapporti con l’esterno, privata perciò del cardine speculare dell’evoluzione: la relazione, la ricerca dell’altro. Qui sarà l’errore dell’uomo che perderà la sua battaglia contro il sistema e la civiltà imposta in una serie di registrazioni – composte per quando la ragazza sarà rimasta sola – che resteranno però valide per momenti ormai superati, quando ormai la ragazza avrà scelto di conoscere come giusto, come naturale, secondo l’esperienza diretta. Questo è quel che sceglierà, anche quando dopo la morte del vecchio il suo vero figlio (Andrea Bosca) riuscirà fuori tempo a scovare il nascondiglio segreto del padre e della sua storia d’iniziazione, trovando soltanto la ragazza e un mucchio di nastri con idee, pensieri, dispersioni di un vecchio alla deriva.
L’articolazione del testo vive una particolare complessità nella struttura, composta di monologhi rivolti verso un ipotetico uditore (noi, in platea) e dialoghi che sono per lo più monologhi anch’essi, ma rivolti verso una relazione in ogni caso mancante, non completa, con l’altro. Questa complessità, da un lato di valore, cova in sé un rischio senza scampo di sovrastare la fase scenica: ecco allora che lo spettacolo appare come schiacciato dal testo, incapace di sollevarsi dai suoi meccanismi strutturali in virtù di un troppo sterile dinamismo. Se l’operazione di Camerini è quella di riferirsi all’oggi recuperando antiche pratiche di relazione schiacciate dalla modernità, l’evoluzione spettacolare del testo è retrodatata rispetto alla ricerca performativa contemporanea e piuttosto incline, suo malgrado, a una sperimentazione manierata.
Simone Nebbia
In scena al Teatro Vascello fino al 12 maggio 2013
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L’ARMA
di Duccio Camerini
regia Aureliano Amadei
con Giorgio Colangeli, Andrea Bosca, Mariachiara Di Mitri
scenografia Tommaso Garavini e Fabiana Di Marco/Rota-Lab
costumi Daniela Ciancio
aiuto regia Vanessa Bollar Maqueira
casting Flaminia Lizzani
disegno luci Vittorio Omodei Zorini
produzione Motoproduzioni srl -TSI La Fabbrica dell’Attore
in collaborazione con La Casa dei Racconti