In One Day, titanica opera di 24 ore firmata Accademia degli Artefatti che non avrebbe mai visto la luce, c’era una scena esilarante in cui un attore entrava in scena completamente nudo, annunciando al pubblico di voler compiere una performance estrema, quella di rivestirsi davanti a tutti. Il consueto coro goliardico di «Nudo! Nudo!» veniva ribaltato in «Vestito! Vestito!» e ci trovavamo ad applaudire di fronte alla presa in giro di un nudo in scena che, lungi dall’essere una novità o una reale provocazione, è ormai una tendenza comune.
Si ha a che fare con una ingombrante questione culturale, la presenza monolitica di tabù profondi che il rasoio dell’arte è l’unico mezzo in grado di recidere, di squassare, di martoriare, per poi uscire dalla lotta coperto di un senso che sanguina e che sporca, restituendo agli occhi dello spettatore la responsabilità di farsi un’opinione.
Ed è su questo scarto che operava il lavoro di Alessandro Sciarroni in Your Girl e in Joseph: nel primo, la nudità degli interpreti (un giovane dal fisico statuario e una nana con problemi di deambulazione) era ironico pensiero laterale a una love story in pillole; nel secondo il performer (Sciarroni stesso) sperimentava il corpo in una serie di brevi incontri al buio, randomizzati della chat roulette.
Guardando un film porno salta subito agli occhi la prevalenza del color carne, molto più neutro della pelliccia o delle piume degli altri animali. Un colore meno radicale, evidenza del grado assoluto di somiglianza che ci rende identici: la sola disposizione degli organi sessuali dimostra quell’equivalenza seriale che manca alla fisionomia, al colore degli occhi o della pelle, al tono della voce. Vederci rispecchiati in un corpo che di fronte a noi agisce senza i limiti di un abito da indossare (per aderire a un ordine
sociale, in cui stare comodi, con cui intimidire o essere sexy) ci mette paradossalmente al sicuro: c’è qualcuno più coinvolto di noi. Su questa fondamentale distanza si apre il bivio tra disagio ed eccitazione.
Ma se è di arte performativa che parliamo, stiamo già considerando una traiettoria tangenziale. Scena e platea condividono tempo e spazio, ma l’implicito accordo su una convenzione li separa come due gradi della stessa natura. Allora il nudo da danza butoh di Masaki Iwana (di interpreti come Alessandra Cristiani o Stefano Taiuti) non potrebbe mai riuscire volgare, ammiccante, lirico, ma in verità neppure sensuale, perché su quei corpi viene ricostruita un’intera grammatica ritmica, una coreografia dei sensi che mira a integrarsi nello spazio, a farsi forza cruda e funzionale alla partecipazione dello sguardo.
Nel suo fuoco distruttivo, nella sua estetica apocalittica, nel gorgo acido del suo personale girone infernale, Jan Fabre ha indubbiamente assegnato all’uso del nudo e del seminudo una forza drammaturgica, ma tendendo a escludere lo spettatore, facendo
piuttosto leva sullo scontro tra i corpi. In Another Sleepy Dusty Delta Day o in Preparatio Mortis un corpo di donna, privato della sua femminilità veniva messo al servizio di un sistematico macello, di evoluzioni forsennate o applicazioni metodiche di piccole violenze, stuprando lo spazio a colpi di mimica oscena. Ma il corpo libero per Fabre non esiste, c’è sempre qualche oggetto contundente o qualche A questa beffarda estetica del dolore, che il sublime diafano del postmodernismo ha derubato della poesia e del sorriso arcaico, si rifanno anche i lavori di ricci/forte, così disperatamente “apparenti”, con quei corpi a metà tra i fotomodelli di biancheria intima firmata, corpi sani e belli da retro della confezione dei cereali. Il tentativo di Stefano Ricci e Gianni Forte sarebbe quello di sbattere quei falsi sorrisi sugli scaffali di un supermercato massmediatico in cui, al suono di musiche pop e con il sussurro di confessioni tardo-adolescenziali, si compone il ritratto per immagini di un logorante eppure accattivante universo neotecnologico. Quell’esposizione che si presenta come provocazione continua (enfatizzata dall’aggiunta di elementi fetish, di stranianti oggetti astrusi dal contesto) e che – lasciando in pegno un doveroso scarto ironico – potrebbe davvero tramutarsi in un’estetica forte, in una presa di posizione finalmente anche politica riguardo alla pornografia dell’immagine, viene invece erosa da una marea drammaturgica che quasi mai porta un segno sincero – e invece ricattatorio e un po’ moralista – e che troppo spesso finisce per celebrare un’adesione al modello che vorrebbe distruggere. Allora anche il corpo nudo perde la sua potenza, lontano anni luce da una reale convivenza con l’occhio che lo guarda.
In questo senso l’uso assoluto e spregiudicato del corpo nudo fatto da Dave St. Pierre – coreografo canadese celebre proprio per il nudo integrale e senza compromessi dei danzatori – è infinitamente più critico, perché gioca sull’attacco frontale della corazza moralista che la nostra, “nostrissima” società fa della nudità – immediatamente collegata solo ed esclusivamente alle implicazioni sessuali e ai risvolti osceni – e, subito dopo, quello stesso attacco lo prende in giro con quel partito preso che rinuncia ad avere in scena danzatori vestiti. Se la prima azione è quella di mandare uno dei performer in platea per una passeggiata sulle poltrone strofinando natiche e sesso in faccia tutti, l’effetto non è la provocazione (ormai usurata) ma lo stesso genuino imbarazzo di quei sogni in cui ci troviamo nudi di fronte a un gruppo di sconosciuti. La nostra prima e unica reazione è che ci vergogniamo per lui, ché la cosa in sé è troppo apertamente idiota per irritarci davvero. E se poi uno spettatore viene invitato sul palco per cimentarsi in una lunga performance sessuale con una bambola gonfiabile, il tutto avviene quando l’ecologia della scena è già passata di grado e d’un tratto la cosa più straniante non è la situazione demenziale, ma il fatto che lo spettatore indossi degli abiti. L’operazione di St. Pierre, pure se incapace di rinunciare a troppe strizzatine d’occhio sulla propria stessa arguzia, è senza dubbio una ricerca radicale che usa il corpo nudo come grimaldello per un’altra dimensione di partecipazione e di “ascolto visivo”.
E se nel cinema la lontananza dello spettatore è resa inequivocabile dalla freddezza del mezzo, la fotografia racchiude nella fissità dei suoi contrasti e nel suo tempo ghiacciato un ricordo che paradossalmente potrebbe appartenerci, una memoria frammentata di cui potremmo aver perso i pezzi. Eccoli lì, invece, ricomposti in un modo che non ci aspettavamo. Con il nudo, poi, insieme a quell’epifania giunge alla schiena il brivido di qualcosa di mostrato, del (nostro) corpo visto da fuori. E allora stavolta siamo tutt’altro che protetti. Negli scatti della statunitense Nan Goldin compaiono pelli gonfie di lividi, sguardi che guardano attraverso senza fermarsi e per noi quel nudo quasi involontario riscopre la sorpresa di una disarmante sincerità spinta sul piano della carne, dove la completa e assoluta mancanza di medium tra pelle e pelle che ci è concesso contemplare per un tempo indeterminato, ci rende tutti così identici e, insieme, così terribilmente lontani.
Sergio Lo Gatto
Questo articolo è apparso sul numero Aprile/2013 dei Quaderni del Teatro di Roma. Per gentile concessione.