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Dal mercurio a Mercuzio: il valore di una consonante

Mercuzio non vuole morire: La giornata della partenza - II capitolo Bologna, Giardino della memoria – Spazio antistante il Museo per la Memoria di Ustica - Foto di Futura Tittaferrante

Marzo ci sta portando fuori dall’inverno, un grado dietro l’altro il termometro risale la china del mercurio e le giornate si stanno allungando. Mercurio. Nel termometro la linea rossa si accalora come la passione civile sta tornando a infiammare i cittadini di questo paese, in queste prossime idi di marzo in cui non c’è alcun Giulio Cesare da assassinare perché s’è suicidato nelle urne qualche giorno fa. Mercurio. S’infiamma Roma anche del teatro, posto che si cambi una consonante e quel Mercuzio che ha saputo invadere dal carcere della Fortezza l’intera città di Volterra ora giunge qui, nella capitale che a tutto pare indifferente, sorniona e giunonica città che dorme lungo le anse del suo fiume: questa sera e domani, al Teatro Palladium, cercherà Armando Punzo con i detenuti del carcere di Volterra di non straripare nel quartiere Garbatella, salvare e uccidere insieme questo Mercuzio che non vuole morire come invece “deve” il Cesare shakespeariano, di contenere il teatro nel teatro ma far debordare i confini della poesia, animarci di quella stessa passione, calore, di una consonante che torna indietro. Mercurio.

Ma Roma di teatro è sempre in piena, o almeno sembra a guardare i cartelloni in cui si affollano nomi sconosciuti, progetti curiosi altri asfissianti solo a pensarli, piccole grotte nascoste ai più dove ci si ostina all’arte del palcoscenico. Una di queste grotte, vera e propria a dire il vero, è il Teatro dell’Orologio con quattro sale e tante, tante offerte diverse. Tra di esse, alla sala Orfeo, La voce umana, testo ormai classico di Jean Cocteau che Paola Maffioletti ha portato in scena per voce di Alessandro Ercolani.

La voce umana
La voce umana - Foto di Giuseppe Giammetta

La prima cosa a colpire è che il monologo, femminile, è affidato a un uomo. Se da un lato il progetto è per questo intrigante, dall’altro si svela nei suoi limiti perché quelle parole, quella solitudine, quell’attesa che si disperde annichilita può soltanto per voce di donna, soltanto al femminile è concessa quella tensione ondivaga che si inarca e si ammaina come le vele di una barca insicura. Un ricordo, di qualche anno fa: lo stesso testo per voce – e soprattutto silenzi – di un’attrice storica come Rossella Or. Ne fui annoiato, inorridito. Oggi vorrei rimediare e dire che il suo fu davvero il modo di stare in quel silenzio, far apparire una Roma indifferente alla finestra e continuare il suo lento suicidio delle relazioni umane nell’interno borghese da cui non sa uscire. Il dolore era allora universale, in questo caso l’impressione è che pur nella bontà del progetto, che riconosco e che vorrei veder sperimentata su un altro testo, la carica attoriale di Ercolani sia inadatta e forse acerba, inquieto dall’inizio alla fine rimane impigliata in cavità del testo e dalle strettoie non sa divincolarsi. Da una vasca da bagno cerca di uscire, da una casa non sa farlo. Sigarette spente, resti di cene mai digerite, bottiglie di vino svuotate, pillole che scappano da mani tremanti, anche gli elementi non offrono grandi spazi per allargare una visione ulteriore rispetto al già dato della didascalia.

Ancora all’Orologio, ma in sala Gassman, siamo tornati per l’energica Valentina Fois in Pazza per la tele, testo e regia di Noemi Serracini. Cresciuta quest’ultima negli ultimi anni come autrice teatrale (ho ricordi dei suoi esordi al Teatro Sette), costruisce una drammaturgia nel tentativo di mettere in crisi il mondo della tv, il nostro asservimento mediatico da spettatori incalliti e, inconsapevolmente o no, lobotomizzati. Questi i presupposti che già non offrono grandi elementi di novità, sia pur animati da una scenografia fatta nel foyer di televisori accatastati e su palco di velatini di schermi video. Ma fin dall’inizio il testo si rivela deludente e statico, incapace di costruire una parabola drammaturgica che l’attrice possa sfruttare oltre la propria fisicità, costretta ad abitare come può i troppi spazi vuoti di una regia impalpabile, assente. Nelle note di regia si fa riferimento ai pericoli della telecrazia, alla popolarità falsa del piccolo schermo eccetera eccetera, tutte cose già svolte in migliaia di altri luoghi e che qui non raggiungono la sufficienza nella qualità compositiva, addirittura rasentando momenti di apologia e nostalgia per quella bella televisione di una volta che non c’è più, che forse voleva mettere in crisi, su cui voleva ironizzare, ma non me ne sono accorto. Mi chiedo allora: perché continuare a fare sempre lo stesso spettacolo, male, e dar ragione a chi resta a casa davanti alla tv?

Pazza per la tele
Pazza per la tele - Foto di Valeria Tomasulo

La tv. Ecco. Il problema pare abbia colto anche il Teatro dei Conciatori dove è andato in scena La casa della nonna, testo di Nino Romeo che lo interpreta di fianco a Graziana Maniscalco e Gianna Paola Scaffidi. Muore la nonna di due sorelle che sono state lontane, l’evento le porterà a riavvicinarsi e a rimettere in gioco i loro sentimenti, i dolori lasciati indietro nelle loro vite, i segreti nascosti e che ora è quasi un gioco rivelare. In alcuni punti il testo si lascia apprezzare per la dinamica dialogica, ma nel complesso risente di immagini troppo televisive che l’interpretazione non riesce quasi mai a scardinare. Non ce l’ho con la fiction per partito preso, sia chiaro. Ma voglio sia salva la differenza fra messa in scena e messa in opera. Questo spettacolo protende decisamente verso la prima per condiscendenza alla materia narrata, mancando nella vocazione a discuterla e se necessario annientarla.

Di opere d’arte, dunque, abbiamo bisogno. Andremo a cercarne ancora al Palladium con Chiara Guidi ed Ermanna Montanari (Poco lontano da qui, 8 – 10 marzo), faremo un tentativo con Teatro Minimo al Piccolo Eliseo per L’arte della commedia (5 – 17 marzo), andremo al Furio Camillo per la rassegna Io mi ricordo (7-10 marzo) e cercheremo di capire cosa c’è dietro La porta di Szabò/Massini al Vascello (6 – 24 marzo). Ma questa sera è l’occasione perché una voce si innalzi e ci pianti nel petto la spada con cui muore – o forse no – il Mercuzio di Shakespeare. E con esso i tanti Mercuzio che siamo noi che dalla morte di un uomo rinnoviamo l’umanità. La poesia va fatta salva, va fatta suonare per le piazze e le strade, gridata sventolando un libro (portatevene uno!) indossando un guanto rosso con impresso il sangue della nostra morte. Solo così, morendo un po’ grazie all’arte del teatro, potremo finalmente dirci vivi.

Simone Nebbia

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