Fu lui a dirlo a Taormina l’ultima volta che il passo lo condusse di fronte al pubblico: il cuore tremò sempre, a ogni prima rappresentazione e avrebbe continuato anche quando la morte glielo avesse fermato in petto. Palpita nei testi che raccontano Napoli parlando del mondo, in quel linguaggio viscerale impastato con la recrudescenza di una struttura coscientissima. Vibra ancora nei tratti di una faccia incredibile, espressiva come sa essere solo l’arte pura e naturale, nella duttilità di quella maschera di zigomi incavati tratteggiata nello strapiombo dello sguardo, nell’impronta che la voce ha scalfito imperitura sulla memoria della scena. I palpiti di quel cuore sono nei gesti impressi su una realtà di teatro che si tramanda passando di mano in mano, di generazione in generazione, senza perdere la sua meraviglia, senza sfocare l’offerta di un’esistenza intera condotta tra il palcoscenico della vita e la vita in palcoscenico. Ecco cosa è stato Eduardo De Filippo: tutto ciò che, per destino o patrimonio, sin da bambino si portava negli occhi accesi dalle luci della ribalta, che aveva nel sangue e ha fatto carne grazie a un talento così pieno da superare la gerarchia genetica. Forse è questo che ancora rende ostica alla memoria la diserzione del raffronto.
Accanto all’attore, di fianco al capocomico e regista crebbe il drammaturgo che tra i giorni pari e quelli dispari lasciò nelle sue “cantate” un gran numero di testi, alcuni più conosciuti altri meno, tutti rintracciabili nel ricordo come “le commedie di Eduardo”. Tra quelle del dopoguerra anche La grande magia. Scritta nel 1948, fu rappresentata dall’ autore solo a Trieste nello stesso anno e a Roma due anni dopo, raccogliendo pochi consensi e un’accusa di eccessivo condizionamento pirandelliano, eppure nel ’64 fu inserita nel ciclo di registrazioni per la RAI. Conobbe nuova vita nel mirabile allestimento che Strehler mise a punto nel 1985 per il Piccolo di Milano all’interno di un trittico che la vide accostata alla Tempesta di Shakespeare e all’Illusion Comique di Corneille. Oggi giunge sul palcoscenico romano del Quirino con la regia e l’interpretazione del figlio Luca De Filippo.
Nell’equilibrio di umorismo e amarezza di cui Eduardo fu maestro-tessitore la storia di Calogero Di Spelta, borghese contrito tra cinismo e gelosia, si intreccia a quella del prestigiatore Otto Marvuglia tra illusione, rifiuto della verità e ricerca di certezze nel rifugio di un’irrealtà quasi desiderata. Durante uno spettacolo del mago la moglie di Di Spelta approfitta di una finta sparizione accordata in precedenza per concedersi un quarto d’ora con l’amante. Ma il gioco di prestigio non riesce, la signora scappa via trasformando il trucco in una condanna destinata a durare anni. Quando infatti suo marito si troverà a chiedersi perché la donna non ricompaia, per cavarsi d’impaccio il malcapitato illusionista lo convincerà che ella sia contenuta in una scatola da cui potrà ricondurla a sé solo dopo aver aperto lo scrigno con fede. Dopo le prime resistenze, per sua stessa volontà Calogero si lascia andare alla mistificazione e, rifiutando d’accettare l’idea dell’adulterio, si convince di essere compartecipe a metà di quel mistero per cui Marvuglia, tra cialtroneria e compassione umana, si fregia del titolo di professore incespicando tra funamboliche teorie sul “terzo occhio, l’occhio del pensiero”. Niente riuscirà a restituirlo alla crudezza del mondo e dei suoi errori infimi, nemmeno il ritorno della compagna che rifiuterà di riconoscere preferendo perpetuare il vagheggiamento di una figura leale.
Chiunque sia legato a un cognome altisonante e a un’immagine inconfondibile ne porta – si sa – la memoria come un paragone implicito. Tuttavia sciocco sarebbe trincerarsi in un tentativo di riproduzione perfetta per fuggire o peggio ricalcare a menadito il modus operandi paterno. Luca De Filippo decide dunque di proporre il testo nell’integralità asettica, inserendo solo poche battute de L’arte della commedia e conservando la divisione in tre atti e le scenografie tradizionali. Puntualmente si riporta la struttura, passo dopo passo come nella volontà di dichiarare che in questo caso specifico debbano essere la conduzione registica e la scelta attoriale a segnare una cifra individuale. Eppure qualcosa sembra essersi inceppato: marcatura da commedia di sghignazzo, artificio esasperato nella recitazione degli interpreti, forzature vocali ai limiti della caricatura rischiano di disperdere la substantia rerum dei versi per uno spettatore poco avvezzo all’ostensione borghese da prima rappresentazione, senza riuscire fino in fondo a calamitarne l’attenzione alleggerendo una durata temporale ormai inusuale ai frequentatori dei parterre. Polso fermo manca a una regia che preferisce non frenare le derive per gettare una propria traccia, restando però in bilico tra gli eccessi e la più discreta e compassata presenza del De Filippo-attore.
Come a realizzare che nemmeno il gioco di prestigio per cui l’allievo supera il maestro può sempre esser vero, al testo resta qui un respiro spezzato, parole che tanto ancora avrebbero da dire alla società della finzione e invece dalla finzione rimangono sacrificate. Per dire all’osso che a volte l’illusione è alla frontiera tra ciò che è e ciò che vorremo che fosse.
Marianna Masselli
Visto al Teatro Quirino in febbraio 2013 inscena fino al 10 marzo [cartellone]
LA GRANDE MAGIA
di Eduardo De Filippo
con Luca De Filippo, Massimo De Matteo, Carolina Rosi
regia Luca De Filippo
scene e costumi Raimonda Gaetani