Le favole. Immaginari spazi di conoscenza dove il nostro mondo da bambini inizia ad ottenere coordinate attraverso metafore più o meno grandi, iniziano sempre con la stessa chiave: C’era una volta. Questo ponte dal mondo fantastico al mondo reale, in certi casi accade che venga percorso all’inverso riportando indietro una figura dalla Storia, trasponendo le sue gesta, i suoi pensieri, le sue parole dalla realtà della vita alla vitalità immaginaria del racconto o, come nel caso de Il sogno di Rosa, della scena.
Dedicandolo alla figura della rivoluzionaria polacca Rosa Luxemburg, il gruppo bolognese Ursa Maior Teatro sceglie ancora una volta di parlare di una grande donna (del 2005 lo spettacolo Quella luce blu su Marie Curie che apre il loro ciclo di biografie al femminile), e lo fa portando il suo lavoro all’interno della rassegna Sguardi S-velati appena conclusasi al Teatro Due, in una maniera del tutto personale: «C’era una volta una bambina che imitava il verso delle cinciallegre così bene da farle volare subito al suo balcone, c’era una volta una giovane donna che sognava un mondo senza fame, senza miseria, senza guerra, dove libertà e giustizia non fossero solo parole» .
Se questo è l’esordio del libro di Vanna Cercenà da cui lo spettacolo prende le mosse, come trasporre allora il racconto di una vita che si rifiuta di essere “solo a parole”? Abbracciando varie possibilità di linguaggio, Irene Ros porta avanti una sua precisa idea registica utilizzando proiezioni animate (i cui disegni di Manuela Orciari sono mutuati dallo stesso libro), sceglie che a intessere il suo racconto per quadri sia la corrispondenza che la Luxemburg intratteneva con parenti, politici e amici; non delega tutta la scena alla protagonista, ma le affianca altri personaggi, apparenze rese vive da voci e proiezioni, ma non per questo meno reali. Lo spettacolo si affida molto allo spazio e alla capacità dei suoi oggetti di raccontarsi e di creare connessioni con significati inaspettati. Il fil di ferro intrecciato con cui sono costruite le due sedie, l’attaccapanni e la grande cassapanca presenti in scena, rende l’idea della freddezza da clima di trincea (spirituale e concreta, con la quale la Luxemburg dovette convivere tutta la vita); lo stesso rumore prodotto dallo spostamento di questi oggetti metallici si fa segno, la loro identità è liberamente definita di volta in volta, tanto che una panca può essere letto, armadio, treno, prigione. Ma giustamente al centro di questa complessa drammaturgia c’è Rosa che, accompagnata dalla presenza della madre – unica altra attrice in scena, la cui espressività è resa più dallo sguardo che dalle azioni, tutte in funzione della protagonista – vive la propria storia dall’adolescenza fino alla morte, raccontando e rivivendo le proprie parole scritte per lettera, confrontandosi con altri personaggi che nell’immaterialità del ricordo sono evocati dalle voci e dalle loro raffigurazioni per mezzo di disegni animati proiettati sullo sfondo.
Sara Brugnolo porta avanti un’interpretazione asciutta e sincera, per nulla affettata, affidandosi alle immagini che il proprio corpo crea, opponendosi ai suoi stessi limiti o alla fatica nell’interazione con gli oggetti presenti in scena. Conducendo per mano chi vede nella scoperta che i gesti, gli oggetti non hanno sempre un unico “verso” da cui essere guardati. Similarmente alle difficoltà che una donna del suo periodo avrebbe potuto incontrare nel manifestare la propria indipendenza di pensiero, tutto in scena sembra sovrastarla; eppure ogni azione appare funzionale a questa poetica per immagini: lo sforzo per spostare un mobile rende l’asprezza di un viaggio in treno, tentare ripetutamente di appendere la giacca ad un immenso appendiabiti mentre denuncia le difficoltà politiche incontrate sul cammino, è testimone della medesima fatica, del suo non esser creduta quando avrebbe paventato di una guerra alle porte (il primo conflitto mondiale). Tutto incombe, perfino il suo grande amore è un’ombra gigantesca, alla quale ad un certo punto non potrà che dire: «non posso più identificarmi con la ragazzina che mi sentivo con te». Rosa Luxemburg, in una narrazione in cui ad emergere maggiormente è il suo lato umano, sente il peso del suo essere “inferiore”, di appartenere ad una minoranza sociale, politica e di genere, eppure nonostante questo continua a portare la propria freschezza, un sorriso triste che non cadrà nemmeno negli ultimi momenti di vita.
Ma la pesantezza di un racconto aspro non farà mai parte di questa messa in scena. Il libro della Cercenà è volontariamente pensato per ragazzi: i fatti storici sono raccontati, le disgrazie non sottaciute, eppure lo spettacolo assume lo stesso filtro leggero di favola. La regia non mostra i fatti nella loro crudezza diretta, ma come nei sogni lascia intuire, semina indizi, parla di lettere che sono foglie, racconta della morte attraverso una mantellina nera (indossata due volte dalla protagonista, una per la morte della madre, l’altra per la morte del padre), dichiara la rinuncia all’amato gettandone in platea il cappello. Tutte immagini vive perché abitate costantemente, non solo mostrate, coscienti di star raccontando di una storia, e delle infinite possibilità con le quali questa può esser trasmessa.
Viviana Raciti
18 – 20 gennaio 2013
Visto al Teatro Due. Teatro Stabile d’essai
IL SOGNO DI ROSA
atto (unico) d’amore per Rosa Luxemburg
Tratto da La Rosa Rossa. Il sogno di Rosa Luxemburg
di Vanna Cercenà
Con Sara Brognolo e Manuela Cuscini
Voci Daniele Gattano, Edoardo Lomazzi, Marco Mattiuzzo, Marina Meinero, Alice Melloni, Claudio Nader, Martino Pani, Michele Spanò, Marika Tesser, Michele Zaccaria
Musiche originali
Illustrazioni Mnuela Orciari
Animazioni Andrea Basti
Scene Simone Bellotti
Regia Irene Ros