Che il teatro racconti la realtà cercando di interpretarla secondo la sua intima essenza (e cercando di evitare di rappresentare la rappresentazione) ce lo dice la sua etimologia greca che dal verbo théaomai ci lascia in tradizione un significato chiarificatore: vedere. Ma quante volte questo rapporto di derivazione segue entrambe le direzioni? Già, infatti non di rado è la realtà stessa che sceglie di raccontarsi attraverso il teatro, assecondando così tendenze reali in una sequela di inflessioni realistiche. Proprio per questo – e grazie all’analogia dello spunto che ci viene dalla trasmissione Fahrenheit di Radio 3 e che siamo felicissimi di citare – abbiamo pensato di riflettere su quale spettacolo meglio di ogni altro potesse raccontare questo pericolante anno 2012, appena terminato senza i previsti cataclismi e rappresentando invece la concretizzazione di certe difficoltà economiche e sociali senza fine apparente. «Moriamo per delle idee, vabbè ma di morte lenta…» direbbe la voce di Fabrizio De Andrè, nel considerare l’ancora solida convinzione che il sistema capitalistico sopravviva a questo stato di crisi.
E il nostro teatro? Quest’ultimo anno ha prodotto dal basso come dall’alto molti spettacoli che non hanno lesinato il racconto dell’attuale stato di cose; nell’ennesimo anno orribile dell’economia e degli equilibri sociali non sembra casuale il percorso che tiene insieme il profetico ma non troppo Giù di Scimone e Sframeli con le conseguenti Memorie del sottosuolo de Le Belle Bandiere, dostoevskijana risalita che proprio dal racconto riconquista la superficie, anche se il timore più grande in una simile condizione è che il ritorno più accreditato sia quello di un fortunato titolo di quest’anno: La merda di Cristian Ceresoli. Ma niente paura, il teatro ha sempre una risposta per tutto. E allora resterà questa la stagione in cui due sono state le risposte: quella evocativa di Antonio Latella con Un tram che si chiama desiderio, quella dialettica di Marco Tullio Giordana, impegnato con Tom Stoppard a riconsegnare a noi italiani la voglia di sognare concretamente, riportando a discussione perdute ideologie che costituiscono lungo tutto il Novecento la nostra Coast of Utopia.
Ma noi volevamo giocare giusto? E allora giochiamo. Nell’anno che da millenni ci si aspettava leggermente più breve per una profezia di catastrofe apocalittica, mutata invece in una Apocalisse da sgretolamento, un pezzetto alla volta, la parola che forse meglio di tutte sta a questo 2012 è per noi l’attesa, positiva per la fine della crisi e negativa per la fine del mondo, in ogni caso tradita e delusa fino a rinnovarsi per l’anno nascente. E allora c’è nella storia del teatro mondiale spettacolo più preciso per raccontare il 2012 che l’Aspettando Godot di Samuel Beckett? L’attesa di Vladimiro ed Estragone non ha fonti certe, non sanno cosa e dove attendere, solo danno un senso spaziale e temporale alla dispersione della propria esistenza e aspettano, in attesa dell’attesa rinnovata. La possibilità permane intatta, continua, nel loro continuo sconforto. Come la sera dell’ultimo dell’anno una speranza cristallina tintinna sempre, nel bicchiere opaco del nostro ultimo brindisi: «Andiamocene. / Non si può. / Perché? / Aspettiamo Godot / Già, è vero. (Pausa). Sei sicuro che sia qui? / Cosa? / Che lo dobbiamo aspettare».
Chissà dove e cosa. Ma si aspetta.
E tu, lettore, cosa aspetti a scriverci in un commento qual è il tuo spettacolo, classico o non, per raccontare il 2012?
Simone Nebbia