Chiamiamolo spirito critico: è la naturale attitudine che si sviluppa quasi inconsapevolmente in ogni fruitore non solo delle arti, ma della realtà. Se la critica come mestiere emerge per affermazione, è una corazza costruita a tavolino, lo spirito critico germoglia per reazione, risponde a una mitragliata di segni e, se non ostacolato, quasi in silenzio si disciplina. Di critica (o presunta tale) la nostra “società delle arti” è piena, mentre lo strano spettro si palesa sempre più di rado, forse perché sempre più di rado viene evocato. In teatro, sui giornali, nei libri, al cinema e forse al massimo grado in televisione aumentano i casi in cui l’offerta espressiva è qualcosa di preconfezionato. L’arte contemporanea sembra non fare eccezione. Certe volte la responsabilità è del linguaggio, altre volte del fruitore stesso e della sua dichiarata adesione a una modalità di ricezione non più personalizzata; ma stavolta – attraversando la terza edizione di Digitalife, esposizione di arte contemporanea allestita dalla Fondazione Romaeuropa fino al 16 dicembre, sembra che anche il mezzo ci metta del proprio. In questo caso il mezzo significa lo spazio e come esso viene organizzato. A Testaccio c’è il padiglione del Macro, curato dal presidente della Fondazione Monique Veaute e murato di pietre miliari del contemporaneo, tra Marina Abramović, Jan Fabre, Shilpa Gupta, Lech Majewski, Masbedo, Zbig Rybczynski, Paul Thorel e chi più ne ha più ne infili; a Trastevere c’è l’Ex Gil, dove il giovane Daniele Spanò (egli stesso raffinatissimo artista del video) ha incastonato una formazione di sette artisti italiani con l’apparente attenzione a registrare proprio il passaggio del fruitore, la sua interazione con lo spazio.
Nell’evocare lo spirito critico, Veaute ha preparato l’ambiente tentando di dare un ordine spaziale anche al tempo: l’aplomb formale dell’esposizione dà l’impressione di lasciare al visitatore tempo e modo di “respirare” uno spazio non organizzato per corridoi e percorsi. Ma la parete attraverso cui lo spirito non riesce proprio a passare è un’impostazione enciclopedica che sembra tentare una (possibile?) storicizzazione del contemporaneo. Lo smarrimento arriva quando ci troviamo a osservare tutto come da dietro a un vetro, senza tenere in mano coordinate di sorta che ci dicano, rispetto a ciò che vediamo, quale sia la nostra posizione. Spaziale e temporale. Di certo non aiutano le didascalie stampate sui muri bianchi, belle a vedersi e a volte anche a leggersi ma fatalmente fumose nel proprio stesso compito. Le suggestioni restano suggestioni e in questa esplosione di formalismo un po’ forzato gli accostamenti risultano stranianti, le cronologie si intrecciano: la meno recente e scolastica “teoria del movimento” del coreografo William Forsythe in Lectures from Improvisation Technologies, con le elaborazioni grafiche sulle forme della danza che avrebbero fatto sognare Rudolf Laban, sconfigge il freddo e già vecchio esperimento sul digitale firmato Majewski, Bruegel Suite, dove un attempato Rutger Hauer impersona il pittore fiammingo perso nei suoi stessi quadri. Allora le stilettate concettuali di I Have Many Dreams di Gupta, dove alle foto di bambine indiane viene aggiunta una cuffia per ascoltarne la voci, o della cipolla mangiata a morsi da Abramović in The Onion, se non per sottigliezza, vincono per una qualche ammaliante rudimentalità. Ma era quello che volevano?
Il nostro fantasma fluttua dunque non su una dimensione cronologica ma già storica: nell’organizzazione quasi museale dello spazio la vitalità di certi lavori è messa di corsa di fronte alla sua stessa estinzione, rubando la vitalità del nostro passaggio e lasciandoci quasi nulla in pegno da portarci via. È forse la trappola di certo video, dell’immagine consegnata in una forma solo limitatamente aperta, ma che – se aggrappata ai propri stessi supporti – forse non lascerà mai le pareti dello spazio espositivo.
Volando verso l’Ex Gil le cose cambiano, il nostro passaggio viene effettivamente fotografato, prima dai sensori nella piccola stanza di Frozen Nature di Noidelab, che regolano l’azione dell’acqua su un macchinario, poi nell’osservare le lumache vive di Quiet Ensemble (Orienta: è qui ora, che decido di fermarmi), che strisciano lasciando una traccia luminosa, di per sé simbolo di passaggio vitale. Allora sembra proprio stare in questo “anti-ordine” la forza della cura di Spanò, che compone diversi livelli di partecipazione critica. E più che un’interattività diretta e un po’ didascalica che ci invita a “scegliere” la reazione di un gruppo di persone proiettato in video, come nei lavori di Francesca Montinaro (Audience) e di Overlab Project (La perversione del dittatore #2.0) il ragionamento sulla responsabilità di chi guarda un’opera nel suo svolgersi si esprime con forza nel più sottile Cinema Rianimato di Daniele Puppi. Rielaborando con ironia spezzoni di un vecchio film in un nuovo montaggio realizzato in fase di proiezione, ci mostra che cosa significhi respirare insieme alla visione. Come in un rito divinatorio, l’immagine viene riportata in vita, riconquista gravità e così una capacità nuova di determinazione drammaturgica ed emotiva: si allarga, si restringe, danza a ritmo del sonoro, respira – appunto – con la visione.
Per essere efficace, ogni “spazio dell’espressione” dovrebbe contenere in sé gli strumenti per essere distrutto e ricostruito da capo, consegnando agli occhi di chi guarda una materia che prende senso mentre viene guardata. Un senso fieramente liquido che ci invita dentro l’opera, dove viene conservata con cura la nostra capacità di bucare la tesi e affondare nell’antitesi. Stavolta sì che lo spettro della critica può manifestarsi. E diventiamo spettatori naturalizzati critici. Che poi è (o dovrebbe essere) un palindromo.
Sergio Lo Gatto
questo articolo è apparso il 1° dicembre 2012 sul quotidiano Pubblico, nell’inserto Orwell, per gentile concessione