Quattro attori per due atti unici, Angeli in uno, Bravi ragazzi nell’altro, nel dittico di Angelo Longoni sono due frammenti dello stesso specchio rotto, che riflette una realtà metropolitana lontana dal centro sfavillante di shopping, al confine con ferrovie e litorali. In dialoghi tronchi dalla cadenza neo-romanesca, le grandi e piccole prospettive di vita sono ridotte in polvere, da mandar giù in una bottiglia di birra tiepida, tra lavoro che non c’è, emarginazione e soprattutto odio, quella corazza di inettitudine che allontana ogni essere dal suo debutto morale in società.
Il fondale bianco latte macchiato ora d’azzurro, ora di ocra, disegna notti e albe di una periferia. Nel primo atto, abbandonati come gatti stanchi su scalinate stilizzate a sognare una ragazza-angelo, i quattro finiranno per trovarla nell’epilogo macabro di una bravata dell’ultimo minuto. Nel secondo, ciondolanti sugli scooter, tenteranno invano di soffocare una rappresaglia, tra moto incendiate e molotov da lanciare nel campo nomadi di turno, alla ricerca dell’atto eversivo che dovrebbe svegliare la coscienza sporca dei potenti.
Se l’intenzione di Longoni, qui drammaturgo e regista, sembra essere quella di tracciare un ritratto disperato dell’impossibilità di essere giovani, il suo progetto fallisce quasi del tutto quando entra a contatto con tutte le possibili micce d’accensione dei cliché. Le biografie al limite sono quelle già sentite in tanto, troppo cinema dal pathos facile, già sentito è quel tono sussurrato, quella cadenza tronca che vorrebbe essere sufficiente a raffigurare un territorio e a dare impressione di verità e finisce per diventare un dialetto usato a mezzo servizio da voci già ripulite dal doppiaggio.
Anche grazie a un buon ritmo e al feeling dei quattro interpreti, giovani ma rodati da esperienze cinematografiche e televisive, sono diversi gli scambi di battute che raggiungono fluidità, lasciando intuire la mano sicura di un drammaturgo di carriera. Innamorato di accenti e pause e troppo intento a reiterare lo stesso schema sonoro che dalla parola sussurrata porta all’accesso d’ira, Longoni scivola però nella trappola di un testo che immagina il suono delle parole più che la loro sostanza e che vuole fare a meno di una qualsiasi idea di regia.
Lo spostarsi degli scooter (luccicanti di concessionario), il modularsi delle luci rigorosamente colorate e la fuga inconsulta dei personaggi (parola irrinunciabile, qui) in platea sono gli unici tocchi di movimento, ma gli attori vengono privati dell’uso del corpo, impalati in pose a metà tra le copertine dei dischi hip hop e la pubblicità di Armani Jeans come manichini bidimensionali tra le pagine del più riletto dei romanzi criminali.
Se poi la scrittura non si prende la responsabilità di essere davvero crudele e indugia anzi su sviluppi e finali sognanti, lirici e consolatori, tutte le tracce possibili del cinema di Cassavetes, di Scorsese, del Kassovitz de L’Odio, che Longoni sembra promettere addirittura nei titoli, vanno smarrite in luoghi (ormai tristemente) comuni.
Sarà che il pensiero resta a una drammaturgia che riscopra in se stessa l’urgenza di un salto poetico, una drammaturgia del presente che, senza neppure il bisogno di auto-nominarsi come tale, conosca i mezzi e li applichi come strumenti di rottura e non di adesione. La drammaturgia più efficace è quella in cui la sintassi viva un’astrazione austera, in cui le battute – se proprio se ne sente il bisogno – riescano a dire meno di quanto si direbbe nella vita reale, ma a significare di più. Così – in scena e non solo a tavolino – gli episodi si trasformano in storie.
Sergio Lo Gatto
visto il 7 ottobre al Teatro dell’Angelo, Roma
KAPUT MUNDI
di Angelo Longoni
interpreti Lorenzo De Angelis, Riccardo Francia, Valerio Morigi, Edoardo Persia, Margherita Longoni
Regia Angelo Longoni
Produzione Break Art e Titania srl Organizzazione Emilia Campanile e Valeria Ventrella.
Bisognerebbe spiegare a Longoni che non glielo ha ordinato il dottore di fate teatro….sono anni che ci propina i suoi testi di una banalità sconcertante….BASTA!!!
Gentile Andrea Monti, perchè tutta questa rabbia per Longoni?
Premesso che non conosco personalmente Longoni. Ho visto negli anni alcuni suoi spettacoli. Sono sempre stati estremamente deludenti sia drammaturgicamnete che registicamente. Eppure ogni stagione ritorna nei teatri. Ho visto anche ques’ultimo portato da amici. Orrendo! Non offendo nessuno se dico che sarebbe ora che si dicesse la verità su chi dovrebbe fare questo lavoro e chi no. Che ci si arrabbiasse nel vedere lavori mediocri. Forse così il teatro potrebbe crescere. E’ ovvio che è una mia personale opinione. Giudico il teatrante e non l’uomo che, ripeto, non conosco e non mi permetterei di giudicare. E lei, signor Luca, è un amico del signor Longoni?
Signor Monti,ci mancherebbe, la sua opinione la rispetto e molto probabilmente ha ragione nella valutare il talento di Longoni. Però la sua rabbia la trovo eccessiva.Non è che lei ha un pò di invidia? Invidia tra le altre cose esagerata se consideriamo che Longoni non toglie spazio a nessuno. Lui non va in teatri pubblici, ma in piccoli teatri privati. Poi non capisco il sarcasmo nel chiedermi se sono amico suo. Perchè, lei è abituato a scrivere bene dei suoi amici? Se dobbiamo fare guerre, facciamole contro i potenti non contro i “poveracci”. Un saluto