Programmatore di festival e teatri, il fondatore e regista dell’Accademia degli Artefatti è convinto che l’opportunità più grande per riscoprire la necessità dell’arte sia fornita dalla funzione politica del teatro. Che è anche la più eversiva.
Incontrare Fabrizio Arcuri, in questa occasione alla chiusura di Short Theatre 7, non significa solo incontrare un regista, ma una figura complessa che del mestiere teatrale conosce e sperimenta ogni angolo. Dal lavoro con gli attori alla resistenza a favore di una politica culturale che sia davvero al servizio del presente, da ventun anni guida l’Accademia degli Artefatti, una delle poche compagnie stabili del nostro paese. Ecco perché il teatro è sempre e comunque politico.
Dai primi anni a oggi il tuo linguaggio è cambiato. Sei passato da una forma visiva molto marcata alle sperimentazioni sulla drammaturgia contemporanea europea, che sezionano il testo e lo danno in pasto a una recitazione completamente sui generis. Quali sono le tappe di questo viaggio?
In verità tutto mi appare come un’evoluzione fluida e naturale. La mia cassetta degli attrezzi consiste nel non avere una cassetta degli attrezzi, ma determinare piuttosto gli attrezzi durante il percorso, individuare quali possano essere utili per aggiungere quel tassello e servirmi solo di quelli. Quello che può sembrare uno scalino molto grosso come il passaggio da Sample From Die Die, My Darling (2000) e Tre pezzi facili (2005) che chiaramente è un ribaltamento completo, siamo stati chiusi per due anni dentro il Teatro Florian di Pescara lavorando alla ricerca di un senso, se mai ce ne era uno, perché altrimenti per noi era anche un’esperienza finita. Il metodo è lo stesso, ma cambiano gli strumenti perché a cambiare è la materia.
E che cosa credi abbia influenzato questa evoluzione?
Il senso. Perché io mi metta nella condizione di lavorare con altre persone deve essere chiaro il senso di quello che stiamo facendo, se quello che facciamo sia necessario. Porsi sempre queste domande porta inevitabilmente ad avere in cambio risposte diverse. Cambiano le condizioni economiche, sociali e politiche e pretendono un senso e una necessità diversi.
Sono molti gli artisti che pensano e non ritraggono, che hanno già chiaro in mente quel che vogliono dire. Le circostanze in cui svolgi il tuo lavoro influenzano la tua poetica o questa è un mezzo formalizzato con cui racconti volta per volta il presente?
La forma vive con il contenuto. Avere una forma preconcetta significa inevitabilmente falsificare il contenuto, che deve sempre essere suggerito da un contesto. Il teatro più di tutte le altre arti è una forma d’arte sempre in relazione con la società e con il pubblico. Se la mia forma preconcetta è un bicchiere ma il mio contenuto è un albero sono costretto a cambiare la forma, oppure, per far entrare l’albero in un bicchiere, lo devo centrifugare, finendo per compromettere il contenuto.
Il rapporto con una compagnia è una piccola eccezione del teatro di oggi.
Lavorare per me non significa produrre uno spettacolo, ma progettare un percorso. Bisogna dunque avere la sicurezza che i tuoi compagni di viaggio siano gli stessi, altrimenti è un percorso interrotto. Gli attori partecipano di una progettualità chiara, sposano quell’idea, si riconoscono in quell’ambiente di ricerca e allora sono pronti a cedere, a mollare per trovare dei nuovi tasselli di relazione con lo spettatore, di messa in discussione, di messa a lato della tecnica, non più al servizio del virtuosismo ma della tenuta, della delicatezza, della fragilità del lavoro, che ne diviene la forza.
Sempre di più questo percorso è completamente esposto e visibile in scena. Una nudità completa degli attori, del testo e dei dispositivi che usate. Qual è la tua idea di regia?
Il mio lavoro è totalmente focalizzato sul favorire, e sull’agevolare la capacità performativa dell’attore, di apertura completa. È un accompagnamento. Un attore conosce delle chiavi per sondare, per aprire, per entrare dentro dei meccanismi. Il mio è un processo di “consapevolizzazione” di tutti i dispositivi possibili. Una lettura strutturalista e maniacale del testo finisce per suggerirti quali sono i meccanismi che esso tollera e che cosa produca la tolleranza o la non tolleranza di un dispositivo. Spesso può essere interessante lavorare su dispositivi non tollerati dal testo, in modo da aprirlo ulteriormente, registrare una sorta di radiografia e far emergere cose nuove che rifiutino le semplici sovrastrutture di regia.
Hai parlato di un senso da individuare. Che senso ha il tuo progetto?
Prettamente politico, perché il teatro è una forma di politica e quello non è trascurabile. Non è però il contenuto a essere politico, ma la forma. Quello che abbattere la quarta parete (per ritrovare un contatto diretto con lo spettatore) rappresenti una rottura con la tradizione è in parte falso: è una rottura dispetto a una tradizione, un dispositivo del teatro intimista ottocentesco, ormai formalizzato. Ma prima di quello la quarta parete non esisteva proprio, basti pensare al teatro greco, in cui gli attori erano niente’altro chel’espressione attiva di una funzione sociale.
Come avviene il passaggio tra la poetica, per quanto politica, e la politica culturale portata avanti come operatore?
Occuparsi di teatro significa lavorare attivamente perché esistano e si affermino delle politiche culturali che garantiscano quel che a noi non è stato garantito. Anche qui è stato un processo graduale e naturale, ma che percorro da sempre, da Extraordinario 1995 al Teatro Vascello. Ora vado tre o quattro volte a settimana a teatro perché mi piace. Vedo tanto teatro e vedo tutto, perché sempre e in ogni occasione c’è sempre qualcosa di interessante da vedere. A quarant’anni ho chiesto a Luca Ronconi di fargli da regista assistente. E lavorare con lui è stato come studiare un’intera enciclopedia sulla nascita dei teatri Stabili e sul fare teatro che lui si porta dentro nella modalità che nessuno ha mai scritto.
Quali prospettive ci sono per la politica culturale in Italia?
C’è da lavorare molto perché il teatro riconquisti una posizione di confronto e di scambio nei confronti della società. Germania o Inghilterra hanno una tradizione drammaturgica molto forte, che si preoccupa di registrare quasi in tempo reale i fatti, mettere in questione l’oggetto e far girare le riflessioni intorno al presente. Al di là della spinta eversiva che questo stato di crisi ha incoraggiato e dunque desiderio disperato di superare questo grosso ostacolo, abbiamo passato troppo tempo in queste condizioni, che minano la creatività delle persone. Short Theatre sono delle roccaforti di resistenza e lavoro in direzione di una nuova prospettiva, ma cambiano continuamente i referenti politici e dunque si complica tutto e ogni passo sembra allontanare l’obiettivo.
Però il teatro in questi giorni di settembre è sempre pieno.
Forse la gente comincia un po’ a fidarsi. Stesso motivo per cui non va più a teatro nelle stagioni. Perché non si fida più.
Sergio Lo Gatto
Questo articolo è apparso sul numero Ottobre/2012 dei Quaderni del Teatro di Roma. Per gentile concessione.