Alcuni l’hanno descritta come una piccola rivoluzione, altri come una novità assoluta, il Roma Fringe Festival, ora arrivato al termine, può rivelare almeno in parte qual è stato l’impatto sulla città e sulla cultura teatrale.
Chi scrive ha seguito parte dell’evento a Villa Mercede, un gioiellino ottocentesco nel cuore del quartiere San Lorenzo, assistendo al maggior numero di spettacoli possibile nella prima settimana, con alcune incursioni nelle settimane successive, più la finale del 15.
Cos’è stato questo Fringe? Nel nome fieramente si porta dietro le illustri parentele di Edimburgo e Avignone, ma senza la “copertura” dei due festival istituzionali che dai rispettivi Off vengono attraversati. Il Fringe romano è stata un’allegra e disordinata giostra del teatro con spettacoli per tutti i palati. Sotto l’insegna del Teatro Off, assurta ormai a definizione mitologica, nelle 54 proposte è effettivamente rientrato un po’ di tutto. Ora se è vero che generalmente col termine Off si intende tutta una geografia artistica ai margini degli spazi e delle economie ufficiali, non sempre questa etichetta è sinonimo di qualità. Eppure anche in questo caso il messaggio passato è stato proprio l’opposto: “Al Fringe il meglio del Teatro Off”
Ma torniamo a Villa Mercede. Se l’associazione promotrice dell’evento, Artiflex, che mise l’iscrizione a bando – le compagnie hanno pagato 330 euro per tre serate – ha un merito, è quello di aver rilanciato una proposta di parco del teatro, con la capacità di abitare un luogo pubblico riuscendo a trasformarlo in luogo di incontro per la cittadinanza, obiettivo primario del fare teatro. Salendo da via Tiburtina all’interno della villa il percorso è animato da un mercatino di artigianato e dai bar, seguendo i sentieri che portano nei pressi della biblioteca e di una vecchia pista di pattinaggio si giunge ai tre palchi. Minimali, in legno e tubi innocenti, con pochi fari e qualche quinta. In vero stile Fringe le compagnie più intraprendenti iniziano a farsi pubblicità sin dal giorno precedente al debutto, flyer e qualche chiacchiera le uniche armi per evitare di trovarsi di fronte a una platea mezza vuota o composta di soli amici e rischiando così di non capitalizzare l’investimento; chi già ha nel proprio spettacolo un prologo in mezzo al pubblico (è il caso di Gente di plastica di Costellazione Teatro), esegue delle brevi performance per coinvolgere gli spettatori in attesa agli altri palchi. Tutte le compagnie a turno occupano i tre segmenti della timeline: 20,30, 22 e 23,30, ognuno con le proprie gatte da pelare: chi dà il via alle danze in prima serata può gestire con più calma la parte tecnica – montare la scena, puntare le luci – e andare sul sicuro per quello che riguarda gli infidi radiomicrofoni, la cui perdita di segnale e conseguente afonia dell’attore è stata puntuale come la nuvoletta di fantozziana memoria, ma allo stesso tempo ha a che fare con il sole ancora intento a liberarsi degli ultimi raggi e con il traffico cittadino; negli orari di seconda e terza serata il buio finalmente accompagna gli artisti, ma l’affluenza del pubblico diminuisce con il trascorrere del tempo e gioco forza le batterie dei radiomicrofoni danno forfait proprio nel bel mezzo dello show. Inevitabilmente chi osa per numero di attori sul palco o per dotazioni tecniche viene punito e si ritrova con la proiezione della malefica schermata di Windows sul fondale. Tutto questo senza contare gli ulteriori imprevisti quali il rumore di un accanito match di calcio balilla nelle vicinanze o il classico aereo che sorvola i cieli romani. Nulla di strano e di nuovo per un festival all’aperto, appena nato e nel quale si vogliono far convivere anime artistiche, culturali e sociali diverse tra loro.
Ora, la domanda che bisognerebbe porsi è relativa invece proprio alla tanto agognata qualità: i 54 spettacoli in rassegna – e anche in concorso dato che in premio c’è la possibilità di andare al New York Fringe Festival con un contributo di 2500 euro – sono il meglio del panorama off romano e nazionale?
La risposta va cercata ancora nella definizione “Off”. Con questo termine intendiamo quelle espressioni teatrali costrette a vivere al di là del guado che delimita il teatro istituzionale degli Stabili, ma che hanno creato a fatica un circuito parallelo nazionale, e talvolta non solo. E questo proprio in virtù della qualità delle proposte, della ricerca sui linguaggi e sulle tematiche contemporanee, una fitta ramificazione di percorsi sempre più in difficoltà, ma sempre capace di rimodulare il proprio intervento cambiando rotta ogni qualvolta i venti delle economie e della politica si fanno avversi, creando una disordinata, ma viva, spina dorsale di eventi e festival dal Trentino alla Sicilia. Se così è, allora il Fringe romano non ha rappresentato questo teatro off, che appunto già ritrova sé stesso in altre decine di manifestazioni. C’è dunque una connotazione anagrafica? In parte, ma non esclusivamente. Anche in questo senso il panorama degli iscritti a Villa Mercede è stato variegato. Se invece col termine Off intendiamo tutto ciò che è anche oltre i margini sopra descritti, ovvero un pullulare di formazioni teatrali fuori da qualsiasi circuito oppure alle primissime esperienze allora la situazione si complica, ma ben registra l’atmosfera del Fringe romano, con un parterre sicuramente più vicino alla corrida televisiva che al teatro d’arte. Come in qualunque show di amatori allo sbaraglio di certo c’è il tempo per il talento, per l’inaspettato, ma in un programma così fitto anche l’organizzatore o il critico più assiduo faticherebbero a trovare proposte soddisfacenti. Nelle mie serate ho avuto l’occasione dunque di incontrare un grado zero del teatro in cui si poteva assaggiare un po’ di tutto: dall’improbabile testo su Cassandra al tentativo di sproloquio ironico-filosofico sulla defecazione come metafora dell’ordine sociale, passando al dramma tardo-adolescenziale tinto rosso sangue, all’immancabile spettacolo di improvvisazione (genere che mi arrischierei a definire più sportivo che artistico), fino allo spettacolo-spot sul tema della violenza sulle donne. Ad accomunare la maggior parte delle proposte è proprio quest’appartenenza al grado zero inteso talvolta come netta incapacità di gestire un linguaggio che dovrebbe essere il costrutto del proprio discorso artistico. Facile perciò imbattersi in recitazioni monotone, corpi disabitati da qualsiasi ricerca fisica e cliché in abbondanza, figli di un teatro morto e sepolto, quello degli stabili appunto, ma che qui si manifesta palesemente in quanto non può neanche nascondersi sotto il fascinoso velo della tecnica.
Riusciamo a salvare alcune sporadiche apparizioni: Binario 2 della compagnia Eternit, un monologo intimo e commovente, ben recitato, con coraggio e semplicità; oppure il lavoro della compagnia D.M.A., creatrice negli anni di un gruppo integrato capace di far incontrare arte e disabilità, nel fuoco di un teatro-danza che in Le Notti Bianche ben mescola l’ammirazione per la Bausch al lavoro sulla parola; forse il più riuscito di quelli a cui mi è capitato di assistere, Sotto Berlino, viaggio nella Germania nazista della compagnia napoletana Tavole da palcoscenico con il testo di Gianni Guardigli, un’ottima prova registica e interpretativa, a volte ridondante nell’uso delle musiche e nel trattamento delle emozioni, ma riuscita e di qualità. Da non dimenticare, infine, Popolo bue di Francesco Pompilio, libera (ma abbastanza fedele) trasposizione monologante della Fattoria degli animali di George Orwell, arrivato in finale e vincitore morale in quanto unico tra i tre spettacoli finalisti a tentare una rielaborazione metaforica del presente, a utilizzare insomma il teatro come riflesso della realtà contemporanea.
Per la cronaca ha vinto Horse Head (link al video), uno spin-off de Il Padrino scritto dall’australiano Damon Lockwood e interpretato da Diego Migeni e Sebastiano Gavasso per la regia di Leonardo Buttaroni, commedia infarcita di citazioni da mainstream hollywoodiano e gag da cabaret televisivo. Ma alla giuria “di qualità” tanto è bastato per far sì che la parodia de Il Padrino made in Italy vincesse i 2500 euro di produzione per sbarcare a New York e rappresentare così il panorama off del teatro italiano.
In questa giostra ahimè consolatoria dove tutti hanno la propria possibilità di esibirsi in pubblico per tre serate – basta iscriversi per tempo – e ambire al viaggio nella Grande Mela emerge una costante del panorama teatrale degli ultimi tempi: la crescita continua, per numero, di coloro che potremmo definire come “i praticanti del teatro”. Fenomeno quasi inspiegabile in un paese dove non esiste un’educazione teatrale nelle scuole e dove la politica ha ormai abdicato a qualsiasi forma di progettazione. Il rischio è quello di un orizzonte dove la cultura teatrale e la ricerca su di essa arrancano a differenza della spinta a calcare le assi della scena da parte di un plotone di artisti e teatranti per hobby, intrattenimento o vocazione. Ma forse per intuire tutto ciò non c’era bisogno del Fringe.
Andrebbe dunque ripensato il discorso sulla mappatura del teatro off. Volendo mantenere lo spirito del Fringe nel quale l’investimento delle compagnie è un passaggio fondamentale in un primissimo approccio all’esibizione pubblica (certo non può rimanere una costante nella vita di un artista soprattutto quando interviene il merito), queste realtà andrebbero fatte però dialogare con quelle che della ricerca teatrale hanno fatto il proprio percorso di vita. Mentre anche su questo punto il calendario del Fringe pone poche questioni: se da una parte si ha avuto il coraggio di organizzare una serie di incontri pomeridiani sul teatro e sulla società con studiosi, artisti e giornalisti, il confronto sulla scena con gli artisti affermati è stato ridotto a un panorama abbastanza piatto e di facile richiamo televisivo con Johnny Palomba, Francesco Montanari, Giorgio Tirabassi e Diego Bianchi, eccezion fatta per una serata dedicata al lavoro di Emma Dante, ma solo in video. Troppo poco rispetto ai labirinti, la varietà e la creatività con cui la scena contemporanea ha scritto la storia del nostro teatro negli ultimi 20 anni.
Si vuole un parco del teatro? Si vuole far incontrare tra di loro le anime più distanti che compongono il panorama teatrale italiano e allo stesso tempo dare la possibilità a chi è alle prime armi di arrivare al pubblico ed essere visionato da critici e operatori? Soprattutto c’è l’intenzione di creare nuovo pubblico e di educarlo a un teatro artistico? Allora i mondi da far incontrare sarebbero molteplici e i sistemi produttivi ed economici dovrebbero mescolarsi. Non basta importare un marchio o un’idea dalla Scozia per creare cultura dal basso.
Andrea Pocosgnich