C’è una ferita sempre aperta sulla fragile tela della morte in cui il teatro di Claudio Morganti proietta le sue ombre, e il finale del suo Wozzeck presentato all’ultimo festival di Castiglioncello non fa che renderla visibile quando la carta viene squarciata e da dietro lo schermo esce e prende corpo la scimmia, interpretata da Francesco Pennacchia. La famosa scimmia non è che un uomo gemente con quella sofferenza verbale, quell’insopportabile afasia espressiva che accompagna la nascita del linguaggio nei bambini o che resta tale, per sempre, negli individui incompiuti e sfavoriti dalla fortuna (o come si direbbe nel misterioso lessico materialista del dramma di Büchner, dalla Natura). Le ombre stilizzate e gentili, fatali e poetiche come le acuminate marionette del teatro indonesiano, alla fine, sono cadute dentro un corpo e, da lontane che erano, come segni su un cielo, sono diventate così vicine da dissolversi assieme alla nostra illusione. Perché bisogna essere uomini per rappresentare e farsi scimmie per commuovere gli uomini.
C’è una ferita sempre aperta, e quasi un’imbarazzante doppia natura nella figura dell’imbonitore interpretato da Morganti che, in bilico sulla soglia tra due mondi, la scena e lo schermo, “bombarda la quarta parete” (uso un’espressione dello stesso attore-regista) per ingannare il pubblico a forza di slittamenti della voce e di emorragie del senso, di ruggiti e di raggelanti sciocchezze, lasciandolo in sospeso su una battuta a vuoto. Lui è lì col suo corpo, ma il suo corpo è un’iperbole: vestito come un orientale da baraccone troneggia nel cerchio di luce dei domatori di belve, e sembra più alto e più grosso mentre chiede al pubblico se è il caso di entrare, o di non entrare ora “nel personaggio”. Agita gli stracci dello spettacolo e nelle pieghe dell’istrionismo lascia intravedere (come sempre) tutta la potenza a cui ha rinunciato, un intero sapere scenico buttato via in un raptus, una lezione al contrario che va dal pieno al vuoto, dal senso all’insignificanza, dal potere all’impotenza. Anche lui entra ed esce dal velo oltremondano, come un genio dalla sua ampolla: dentro l’immagine si allarga e si restringe, si alza e si abbassa, urla di profilo, sagoma tra le sagome, anima duttile in un plastico regno di anime. Di nuovo fuori, seduto sul proscenio sarà il Capitano a cui l’ombra di Franz col suo rasoio sempre aperto (che scandalosamente “corre per il mondo”) fa barba e capelli, in una delle scene più cruciali e indecifrabili del dramma di Büchner e dell’opera di Alban Berg a cui Ombre Wozzeck è particolarmente ispirato. All’estremo opposto del Woyzeck “galattico” messo in scena alcuni anni fa da Bob Wilson, quello di Morganti è una stilizzazione rupestre che sulla tela del vecchio cinema – o di un cinema immemoriale e pre-cinematografico che risale le ere della figurazione – proietta i corpi per farli diventare più grandi e più piccoli di quello che sono e scoprire nella loro bidimensionalità leggendaria il segreto coreografico del loro movimento: quel toccarsi fatale, ma in realtà senza contatto, che rende scontati, come già avvenuti, da sempre già raccontati, i veloci colpi di coltello con cui Franz suggella assieme al proprio il destino di Marie.
È in questa perdita di peso che Morganti e i suoi attori celebrano il paradosso di un teatro a un tempo più crudele e più pietoso, più brutale e più plastico della vita, perché la frugale danza delle ombre arriva a noi come la luce di una stella morta: l’ombra sarà sempre là dove il corpo già non è più (dove il corpo se ne sta andando, per tornare alla leggenda di fondazione della pittura, quella della fanciulla di Corinto che con la creta fissò su un muro l’ombra del fidanzato in partenza per la guerra), è la larva esangue a cui Odisseo offre tributi di sangue nell’Ade o il primo gioco con cui i bambini apprendono la distanza del segno. A incorporarla, a rendere miracolosamente vicina la lontananza del suo conciso disegno in bianco e nero, è la voce degli attori, in una tessitura che raddoppia la partitura novecentesca ricucita sulle spoglie di Berg, di Webern, di Schönberg e di Mahler, ugualmente organica, ma più diversificata e vibrante, come se a colmarla fosse il rimpianto per la carne perduta – e per un attimo nello struggente passo a due tra l’ombra di Franz e quella di Marie si ha l’impressione che il destino potrebbe essere diverso (la storia, ci ha avvertito l’imbonitore, è sempre un canovaccio risaputo e triviale; la Storia intera, vien voglia di dire pensando alla Morte di Danton, non è che questo ripetersi in farsa). La grandezza di Rita Frongia (anche drammaturga della lapidaria operina scolpita a cera persa dai Woyzeck), di Gianluca Balducci, di Francesco Pennacchia, di Antonio Perrone, di Gianluca Stetur, di Grazia Minutella sta proprio in un’abdicazione a quella potenza corporea su cui Artaud voleva ristabilire il potere traumatico dello spettacolo, nel passo indietro che rilancia in avanti il resto irriducibile di una presenza che, a quel punto, diviene la più commovente delle incarnazioni. E che fa di Ombre Wozzeck un capolavoro della figurazione ma realizzato con tutti i mezzi del teatro.
Attilio Scarpellini
OMBRE WOZZECK
ideazione e regia Claudio Morganti
testo di Rita Frongia
tratto da Wozzeck di Alban Berg e Woyzeck di Georg Büchner
con Gianluca Balducci, Rita Frongia, Claudio Morganti, Francesco Pennacchia, Antonio Perrone, Gianluca Stetur, Grazia Minutella
musiche di Claudio Morganti tratte da Alban Berg, Arnold Schönberg, Gustav Mahler, Anton Webern, Arvo Pärt, David Sylvian
tecnico Fausto Bonvini
cura del progetto Adriana Vignali
Produzione CRT Centro di Ricerca per il Teatro in coproduzione con Armunia/Festival Inequilibrio con la collaborazione di L’arboreto-Teatro Dimora di Mondaino