Sempre ci si aspetta dalla critica un giudizio, un’opinione sicura dettata chissà poi da quali alchimie, come se il teatro fosse una scienza. A dire il vero le arti sceniche sono probabilmente tra i fenomeni più complessi da valutare nella moltitudine delle esperienze espressive. Come per la musica o le arti visive, nel secondo Novecento le arti performative hanno cambiato rotta più volte, abbandonando gli approcci mimetici per poi ristabilirli con connotati nuovi liberandosi di ogni postulato e rendendo talvolta complesso proprio quel lavoro critico in virtù del quale per natura ci si interroga.
Se nell’etimologia greca della parola “critica” è immediato il rimando al dividere e allo scegliere, è invece più velato il rimando al significato di “crisi” solitamente inteso nella sua accezione negativa, ma in realtà fecondo, soprattutto nel nostro caso, di un pensiero più profondo rispetto a una visione superficiale, questo almeno nelle intenzioni. Ed è la messa in crisi dei criteri percettivi e dunque valutativi il più importante spaesamento con il quale si torna a casa dopo aver assistito a una delle repliche dell’Hamlet di Lenz Rifrazioni programmate fino al 29 di maggio al Teatro Farnese di Parma.
I primi passi nel Palazzo della Pilotta da subito si appesantiscono della grandezza che ci circonda, sulle scale che portano al teatro due attori ci accolgono, a sinistra capiamo che c’è Amleto (Paolo Maccini), neutro, non manifesta un’emozione, sarà la sua maschera naturale per tutto lo spettacolo, a destra Barbara Voghera, è Amleto anche lei, ma la sua interpretazione si oppone diametralmente al primo: si arrampica letteralmente sulla sillabazione della riscrittura di Francesco Pititto, lotta con tutte le forze contro gli impedimenti di pronunzia che le imporrebbe la sindrome di down; cercherà nel suo corpicino una risonanza modulata da continue contrazioni. Sul ballatoio i primi video proiettati (nei quali appare anche il fantasma del padre), ma saranno numerosi e accoglieranno lo spettatore in ogni spazio caratterizzando l’intera scrittura scenica di Maria Federica Maestri. Da sempre questo Amleto è nomade, nel percorso interno dello spettacolo e nella perenne ricerca di spazi non abituali dove installare le proprie emozioni e contraddizioni. Dopo la Rocca dei Rossi e la Reggia di Colorno la collaborazione tra le istituzioni e la compagnia ci ha consegnato questa piccola e fragile utopia del Farnese, purtroppo dissolta con una serata di anticipo a causa del terremoto emiliano.
È dal 1999 che Lenz collabora con il dipartimento di salute mentale portando il teatro e l’arte nella vita di chi ha vissuto il manicomio. Ecco che nei loro volti, “trasduttori di forza” (così vengono chiamati dagli autori), nei loro occhi assenti e perennemente sedati – eccezion fatta per l’irrefrenabile donna del gruppo –, si vive quello spaesamento di cui sopra, un continuo malessere di chi guarda con pietas i video nei quali gli attori/pazienti si preparano concedendosi un sorriso o facendosi il trucco, una stretta allo stomaco che d’un sol colpo fa vacillare quel “kritikos” dal quale deriva l’esperienza nel giudizio, per far riemergere improvvisamente la crisi. È un percorso frastornante quello creato tra le sale della Galleria Nazionale, tra busti in marmo, putti che nella semioscurità diventano angoscianti figure appese e amputate, il retropalco e poi la maestosità del teatro. Originariamente ideato da Giovan Battista Aleotti nei primi decenni del milleseicento, incatena lo sguardo sulla platea lignea, capiente per oltre tremila anime e illumina la curiosità sui due ordini di logge. La regina, interpretata da Franck Berzieri, è immobile e minuscola nei 40 metri di palco, attorno il vuoto riempito solo dalle voci, che fuori da qualsiasi canone artistico diventano dolorose cantilene. Sul fondale, in un gigantesco video – come tutti in un bianco e nero dreyeriano – l’espressività della Voghera è prestata a una furente proiezione della regina. Claudio appare solo in video, dolorosa presenza di Guglielmo Gazzelli venuto a mancare pochi giorni prima del debutto, la sua preghiera negata è tra le scene più intense.
L’attenzione dello spettatore è continuamente destabilizzata da fenomeni esterni a l’imprescindibile hic et nunc dell’atto teatrale, che siano i dipinti della pinacoteca, i video o quel dolce profumo di legno che anticipa la grandezza della sala, in questo contesto sarebbe un compito arduo, anche per artisti normodotati, catalizzare la percezione del singolo spettatore. L’intensità è una corda continuamente spezzata, capace però di diventare tesa e vibrare sonoramente in alcuni momenti quali il celebre monologo rimodulato come atto finale e affidato a Barbara Voghera, recitato con tenacia in un appassionato corpo a corpo col verso shakespeariano dal primo ordine di platea; oppure il suicidio di Ofelia. Il giovane personaggio è interpretato dalla non più giovanissima Delfina Rivieri, la sua lamentazione diventa assordante per l’incapacità di distinguere tra le sofferenze di Ofelia e quelle passate dall’interprete «[..] le mie gambe, le mie vene, le mie braccia, mi tocca morire per amore, il mio cuore, la mia anima, il mio seno, il mio corpo, la mia testa i miei capelli […] quanta acqua, quanti pesci che saltano fuori, non so nuotare, come faccio, m’affogherò, mi tocca morire» è una litania tagliente ripetuta nel pianto, in un corridoio di luce che illumina la passerella su cui la gracile Ofelia si incammina lentamente prima di uscire dal teatro, in un tempo lunghissimo e sospeso. Ed è tutto qui lo spaesamento: dove finisce l’emozione generata dalla pietas e dove comincia quella artistica, senza confini, libera dalla mediazione della disabilità? Ora, al di là della replica alla quale ho avuto l’occasione di assistere, la penultima, probabilmente condizionata dalla stanchezza degli interpreti e da altri fattori esterni, la questione rimane, imponendoci una riflessione sul nostro ruolo di spettatori, chiamati a testimoniare un percorso personalissimo, fatto di gioie, fatiche e dolori, dove il vissuto personale dei protagonisti pesa fin troppo sull’opera d’arte determinandone le più alte vette ma anche i limiti, evidenti per chi ha rispetto di quegli artisti e della propria obiettività.
Andrea Pocosgnich
visto al Teatro Farnese di Parma
maggio 2012
HAMLET da William Shakespeare
traduzione, drammaturgia, imagoturgia Francesco Pititto
regia, scene, costumi Maria Federica Maestri
interpreti Liliana Bertè, Franck Berzieri, Giovanni Carnevale, Guglielmo Gazzelli, Paolo Maccini, Luigi Moia, Delfina Rivieri, Vincenzo Salemi, Elena Varoli, Barbara Voghera
musica Andrea Azzali_Monophon
direzione scientifica Rocco Caccavari
responsabile progetto riabilitativo Paolo Pediri
responsabile progetto formativo Elena Sorbi
organizzazione e cura Ilaria Montanari
produzione Lenz Rifrazioni