La prima cosa che si vede, se si viene dal Foro Umberto I, è un campetto di calcio sterrato e fatiscente, rinchiuso in una gabbia di reti cadenti e sfilacciate e due ragazzini che, calciando un pallone, stanno sfidando la nuvola di polvere che li immerge. Poco più avanti invece si estende un prato verde enorme, a pianta quadrata, ad ampio respiro di fronte alla Magione. Facile dirsi che le opportunità raramente coincidono, che a volte basterebbe unirle alle necessità e tutto sarebbe più fluido, facile perché nella stessa discrasia, nello stesso squilibrio si gioca la partita del Teatro Garibaldi Aperto di Palermo, gioiello che risale al 1861 e fu inaugurato dallo stesso Garibaldi, forzatamente dischiuso e regalato all’attività culturale da un gruppo di artisti e lavoratori dello spettacolo appena due settimane fa, dopo due anni dalla sua incomprensibile chiusura in conseguenza dei lavori di ristrutturazione mai finiti e delle farraginose burocrazie per il bando d’assegnazione.
All’altro angolo della piazza, ma seguendo lo stesso lato del perimetro: una folla enorme di ragazzi sta solo aspettando che aprano i cancelli di ferro e che la serata di spettacolo, di condivisione, di affermazione politica e umana abbia inizio. Poco prima qualcuno mi chiama dentro per un tour più ragionato e, superato l’atrio d’accoglienza, il teatro toglie il fiato: un prospetto a gradinata (ma senza gradini) scivola fino a un palco (o dove dovrà essercene uno…) posto in basso, attorno le balconate di palchetti sono inagibili perché senza parapetto, tenui i colori degli stucchi danno un’idea scultorea d’archeologia monumentale, cui contribuisce di certo quell’arco a sesto acuto dietro lo spazio scenico, come fosse un inserto d’antico in ciò che non riesce a farsi moderno: “Siamo entrati in sessanta – mi dice Dario – noi eravamo dentro e un cordone bloccava fuori altri trecento, abbiamo resistito a non uscire e poi nei giorni successivi è stato un crescendo di adesioni. Pensa – continua – due anni fa fecero anche una finta inaugurazione, il giorno che iniziavano i festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità d’Italia, poi è rimasto a metà, non l’hanno mai finito”. Come l’Unità d’Italia, aggiungo io.
Innegabile la parentela di questo rogo con l’incendio del Teatro Valle Occupato a Roma (come innegabile è la differenza di trovarci di fronte a uno spazio che si stava deteriorando nel degrado prima ancora di aprire e che la terminologia così definisce: Aperto, non solo tecnicamente Occupato), parentela che ha la straordinaria opportunità di svolgersi dopo parecchi mesi dall’occupazione capitolina, sapendone così valutare effetti positivi e difetti eventuali al fine di intervenire e – qualora se ne avvertisse necessità – meglio indirizzarne il percorso. Qui ho visto in scena Il Vangelo Secondo Prese Fuoco. Ovvero, di Gesù al Garibaldi, di Claudia Puglisi, regista di abilità e spirito animoso che porta – girovagando per la platea con un cilindro rosso in testa – un’ironica rivisitazione della Passione, articolata attraverso cinque possibili finali di una storia fin troppo nota, come fosse un modo di renderla artisticamente interessante e quindi svelarne i risvolti di rappresentazione ormai inscindibili dall’uso brutalizzato della fede religiosa. In questo periodo, di fianco alla programmazione di sostegno e adesione, sono stati aperti laboratori artistici e tavoli di confronto sia ristretti che in forma assembleare. L’obiettivo dichiarato è quello di ottenere un regolamento per le attività culturali mediato fra artisti e cittadini, da presentare alle amministrazioni perché sia strumento di controllo in vista di un bando che gli occupanti chiedono a gran voce, così da definire finalmente alcuni nodi spinosi come la durata di una direzione artistica e il suo sviluppo, le modalità di partecipazione alla gestione, un monitoraggio sulle esperienze artistiche cittadine e sugli spazi che cadono in disuso.
Sono pochi i giorni trascorsi e ora regna freschezza, con la stessa seguiremo quest’avventura, augurandoci però che alcuni parametri non si modifichino in corsa: non manchi mai presenza critica (l’arte lo è), non diventi la battaglia esclusivista o mitica (smetterebbe appunto di avere a che fare con l’arte), non replichi meccanismi che affamano questo ambiente e sistemi di potere autoritario che sempre si annidano negli interstizi, più grande è la democrazia cui ci si richiama. Enorme è la battaglia, restino piccoli e concreti gli obiettivi: «Sì ma rimanendo rilassati però… – mi dice Giuseppe sedendo uno dei palchetti in basso – anche questa è una sperimentazione in fondo, teniamo i tempi dilatati così evitiamo di finire le energie… anzi cumpa’, mo ci fumiamo ‘na sigaretta». Usciamo, l’angolo da cui si irradia la piazza è pieno di gente che vuole entrare, mi dico quanto sia bello il contagio delle arti, gassoso negli spazi chiusi: si entra in sessanta e si fa spazio a trecento, Giuseppe accende la sigaretta, la brace viva di fronte al viso è un piccolo rogo che sconvolge il buio di questa sera di primavera: una fiamma accesa in uno spazio aperto di fronte a uno spazio chiuso, ma Aperto, mi dico, è quello il punto dove inizia l’incendio.
Simone Nebbia
Nebbia in trasferta: che emozione!
Hai riportato un buon vino siculo?
grazie simone … a presto! ci vediamo in quel di roma presto