Lo studio di un notaio, la sua scrivania e lui seduto di spalle; di fronte due ragazzi, un maschio e una femmina, fratelli, attendono la lettura del testamento che la loro madre ha lasciato nelle mani anonime del relatore. Una scoperta determinante li coglie ascoltando quelle parole: vivo è il padre che credevano morto da tempo, con lui un fratello di cui hanno sempre ignorato l’esistenza. Dovranno consegnare loro una lettera ciascuno, ultime parole della donna che dei propri contrastati sentimenti ha involto entrambi, farsi ambasciatori di un lascito, di una postuma vitalità. Tutto questo è negli Incendi che Renzo Martinelli trae dal testo originale francese del canadese Wajdi Mouawad (originario del Libano e che aprì il Romaeuropa Festival 2010 con una propria messa in scena di questo testo), dirigendo in scena Federica Fracassi, Francesco Meola, Valentina Picello, Roberto Rustioni, Libero Stelluti. Lo spettacolo è ora prodotto dal Teatro i in collaborazione con Face à face e la Delegazione del Quebec a Roma.
Un testamento impone a chi resta scelte che non vorrebbe portare con sé, ma si condividono oneri e virtù dei propri familiari, anche e forse di più quando non c’è nemmeno un respiro a dirceli vivi, di fianco, quando cioè non hanno più il conflitto della contraddizione ma impongono una volontà, l’ultima e proverbiale, che li rispetti una volta ancora. Il notaio ratifica un sentimento reso in parole piatte, lontane da interpretazioni emotive, che non ne ammettono per assoluta inappuntabilità: c’è quanto scritto, il resto non conta né esiste. La sua scrivania allora lo dispone di spalle alla platea, mentre ai quattro angoli in una simmetria rettangolare quattro banchetti scolastici, più piccoli, sembrano solidamente (ma non lo sono) poggiati sopra un tracciato di mattoni di un edificio che scopriamo abbozzato, forse prima della sua costruzione.
La donna è vittima del dolore di una doppia violenza, quella di un uomo che l’ha stuprata e di un figlio sottratto, torna come una presenza fantasmatica durante l’intero viaggio dei protagonisti (i due fratelli e con loro l’infermiere che negli ultimi giorni s’è legato, per sola assistenza, alla loro madre), in una ricerca verso un mondo che si percepisce islamico, o comunque verso una cultura di certo diversa da quella in cui sono cresciuti, attraversandone una guerra fratricida e sanguinosa. Quel che ne nasce è uno spettacolo di nobili obiettivi, ponendo in discussione integrazione ed emancipazione umana in una legge sovrumana, in questo modo riaffermando istanze della tragedia greca e più precisamente dell’Edipo Re sofocleo, visto e vissuto dagli occhi immiseriti di Giocasta, vittima del seme maschile, del fato e della successione tribale, che pur senza agire si trova involta in una vicenda aberrante. La resa scenica è piuttosto densa e incupita, rigida fino al punto però di restare vittima di questa atmosfera quasi soffocante; si percepiscono gli attori (pur bravi, su tutti un’intensa Federica Fracassi) come fossero oppressi da un testo voluminoso che soltanto prima della parte finale si erge sopra la polvere in cui s’era intasato, lungo e verboso, povero dello spessore in grado di sopravanzare l’inevitabile retorica (che regala perle di questa profondità: «dove c’è amore non ci può essere odio»). Percependo un eccesso di rimarcare certe dichiarate intenzioni, forse alcuni tagli avrebbero giovato, sia al testo che alla messa in scena, perché ne guadagnasse la fruizione, ma probabilmente in quest’epoca di tagli ad ogni risorsa si sarà creduto opportuno conservare e abbondare, in controtendenza, perché quando le risorse ci sono meglio servirsene. Anche se qui, a ben vedere, non erano poi molte anche prima.
Simone Nebbia
Visto al Teatro India di Roma
INCENDI
di Wajdi Mouawad
traduzione Caterina Gozzi
adattamento Francesca Garolla
con Federica Fracassi, Francesco Meola, Valentina Picello, Roberto Rustioni, Libero Stelluti
regia Renzo Martinelli
produzione Teatro i – Face à face – Delegazione Quebec a Roma
Stavolta per niente d’accordo con te, Simone…per me è stato uno degli spettacoli più coinvolgenti visti di recente; ma a parte la messa in scena nella sua globalità, su cui immagino si possa discutere in ogni modo, è stato proprio il testo che tu attacchi a convincermi. Forse qualche affettazione c’è, ma in generale mi sembra che Mouawad sia riuscito a fare quello che a tanti altri autori contemporanei non riesce: tornare a dare una lettura mitica dell’attualità, con quel cortocircuito inafferrabile di individualità e universalità, tradizione e innovazione. E in questo caso l’innovazione sta nella contaminazione fra occidente e oriente, fra vivi e morti: i segni, insomma, di un’identità da ricostruire all’insegna dell’apertura, del difficile coraggio nel negare la falsa immagine di sé stessi, come fanno i due protagonisti. Poi ognuno ha i suoi giudizi, per carità, però avere la solita ottica anti-mitica e critica e demolitrice che oggi hanno praticamente tutti (s’intende: troppi), è molto molto più facile che provare a fare quello che ha fatto Mouawad: e secondo me questa è una grande forza del testo, per niente retorica, che gli va riconosciuta…
E per fortuna! 🙂 Michele, intendo dire che mi sembra un valore non essere d’accordo: non è mai quel che cerco, in teatro, di fianco a me, ma il conflitto buono del dubbio che solo sa generare per rifrazione di parole contrarie qualche lampo di una – tra le altre – verità. Valutino i lettori, il loro coinvolgimento.
Sulle tue annotazioni, poco da dire che non abbia già espresso in un intero articolo, quindi soltanto ribadisco: a me il testo non piace, lo trovo faticoso da seguire, verboso e povero di elementi stimolanti, ma non ho mai detto che per forza bisogna avere “la solita ottica anti-mitica e critica e demolitrice”, ce l’ho verso un testo che non mi restituisce quel che vorrebbe seminare. Per dire meglio: non me la prendo di certo con tutto l’orizzonte artistico che si occupa di zone in guerra e vari ed eventuali altri mondi…me la prendo con chi osannato nel mondo non ritengo abbia le qualità artistiche per esserlo, almeno stando a questo testo.
Gli va riconosciuto quanto dici? Bene, sei un critico Michele, ho visto che tu l’hai fatto e bene (sai che apprezzo la tua scrittura), ma perché dovrei farlo anch’io?
E certo Simone, non volevo mica che lo facessi anche tu! Esattamente per i motivi che hai detto, mi sembrava giusto avviare un contraddittorio; così un nostro ipotetico lettore può avere più voglia di informarsi da sé sul testo e leggerlo (si riesce a reperire, anche se è solo in francese…) o vederlo a teatro senza pregiudizi né da una parte né dall’altra. Certo, se lo facessi sempre sarei solo un rompiscatole!!! Ma in questo caso l’ho sentito necessario proprio perché a me capita di rado di emozionarmi seriamente a teatro; e grazie a questo testo invece è successo. Non che l’emozione sia un valore in sé poi, eh, però in questo caso l’emozione era legata soprattutto al trovarmi davanti qualcosa che prova ad essere mitico, ovvero a “costruire” un’identità, in maniera però inedita, cioè all’insegna dell’apertura al diverso. Poi sai che anch’io apprezzo la tua scrittura e credo pure che fondamentalmente condividiamo lo scetticismo verso i testi demolitori a priori (ho fatto la rima più brutta del secolo), o verso lo sperimentalismo fine a sé stesso; quindi non volevo neanche essere polemico 🙂 A presto!