La prima pièce scritta da Václav Havel era Festa in giardino (1963), una sorta di odissea semiseria ambientata nella giungla della burocrazia. Il protagonista Hugo Pludek è un giovane “uomo medio” cecoslovacco, spedito dagli apprensivi genitori a un colloquio con l’influente signor Kalabis, ospitato nel giardino dell’Ufficio Liquidazioni. In un viaggio allucinato a metà tra Kafka e Ionesco, Pludek non incontrerà mai il signor Kalabis, ma entrerà in contatto con i funzionari dell’Ufficio, una serie di assurdi personaggi che parlano una lingua non-sense, una sorta di “linguaggio della montagna” che da tabù si è trasformato in idioma ufficiale. Tanto insensato quanto necessario per farsi capire. E per intendere i comandi di un regime della burocrazia. Fine della parabola.
Dopo tre giorni di lutto nazionale indetti dal governo della Repubblica Ceca per celebrare la memoria di Havel, il funerale di stato si sta svolgendo proprio oggi alla Cattedrale di St. Vitus a Praga.
Molti sono stati i messaggi di saluto e di cordoglio per la scomparsa di questo gigante della… appunto. Come se per gente così non esistesse una categoria. Come se lì all’Ufficio Liquidazioni mancasse questo sportello. È difficile definire chi fosse davvero Václav Havel, tanto compatta e uniforme è stata la sua statura di intellettuale, potente la sua influenza, d’esempio la sua aura di attivismo. E questi appellativi, così generici e in odor di necrologio classico, saranno gli unici. Ché è più importante dar conto, seppur senza la pretesa d’essere esaustivi, delle gesta di questa figura anomala: un poeta, un drammaturgo, un saggista. Ma soprattutto un leader politico di straordinario carisma, in patria e all’estero.
Qualche settimana fa, in una recensione all’ultimo lavoro di Alvis Hermanis, ci capitava di dover disegnare un breve ritratto di Imants Ziedonis, alla cui figura lo spettacolo era dedicato, interrogandoci su come un intellettuale (dunque uno che scrive poesie, che fa cultura) sia in grado di rappresentare un intero popolo, con le proprie urgenze e contraddizioni, senza diventare un demagogo. Václav Havel ci è riuscito.
Al teatro ci era tornato al termine della carriera politica, che lo aveva visto come: ultimo presidente della Cecoslovacchia e primo della Repubblica Ceca (due mandati); pluripremiato attivista per la pace, i diritti umani e l’ecologia; presidente del Consiglio Internazionale della Human Rights Foundation (Hrf); membro dello European Council on Tolerance and Reconciliation; direttore dell’ufficio di Cultura Moderna al John W. Kluge Center della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti d’America; co-fondatore della fondazione (e omonima conferenza annuale internazionale) Forum 2000; uno dei fautori chiave della dissoluzione del Patto di Varsavia; gran promotore della non-violenza e del perdono (uno dei primi atti pubblici da presidente fu l’amnistia per i molti detenuti che, condannati da una giustizia sommaria durante il Regime, affollavano le carceri senza aver ricevuto un regolare processo). Per quanto alcune scelte fossero state aspramente discusse (l’ingresso della Repubblica Ceca nella NATO, la partecipazione all’Alleanza nella guerra in Kosovo) la sua politica di destra liberale anti-comunista ha mantenuto un largo consenso da parte di quella stessa comunità internazionale che ora ne piange la morte.
Prima della carica ufficiale, era stato uno dei leader più accesi della Rivoluzione di Velluto, con cui il regime comunista cecoslovacco era stato pacificamente rovesciato; Charta 77 era invece il titolo del documento redatto nel gennaio 1977 insieme a Jan Patočka, Zdeněk Mlynář, Jiří Hájek e Pavel Kohout e sottoscritto da 247 cittadini che coglieva il pretesto dell’arresto di una rockband locale per alzare un grido a favore del rispetto dei diritti umani – azione che, insieme ad altre, costò a Havel diversi mesi di carcere. L’attivismo anche estremo era diventato una necessità per chiunque volesse far sentire la propria voce dopo la soppressione della Primavera di Praga, costata la perdita pressoché totale di libertà di espressione. Inclusa la messa al bando di cinema e teatro.
Il Regime sovietico non aveva concesso ad Havel, nato nella Cecoslovacchia del 1936 da un’agiata famiglia di proprietari terrieri e imprenditori “illuminati”, di intraprendere studi umanistici a causa del sospetto collaborazionismo della famiglia durante l’occupazione tedesca. Ma il tentativo alla facoltà di Economia della Università Tecnica Ceca di Praga era durato poco più di due mesi; poi la passione per la cultura e la letteratura lo avevano del tutto rapito: mentre lavorava come macchinista nei teatri praghesi, studiava per corrispondenza drammaturgia alla Accademia di Arti Performative (DAMU).
Alla fine di una vita e di una carriera politica così importante, la firma di Václav Havel compare su un totale di 6 raccolte di poesie, 9 saggi, 1 romanzo e ben 22 drammi, tra cui i celebri Il memorandum (1965), Difficoltà di concentrazione (1968), Largo desolato (1985) e Partire (2007). Quest’ultima amara commedia, che tende una mano allo Shakespeare di Re Lear e una al Čechov de Il giardino dei ciliegi, compare a distanza di più di 18 anni dal precedente per raccontare la storia di un invecchiato cancelliere (Vilém Rieger), dilaniato da una crisi interiore alla perdita del proprio potere politico.
La sua opera più recente sembra allora riannodare i fili slacciati in quel Festa in giardino. L’essenza di quel Václav Havel che la cronologia internazionale ricorderà come una figura storica inimitabile sembra rivivere divisa in due personaggi letterari: l’Hugo Pludek che cerca di imparare una lingua non sua (e insensata) per accedere alla società e il Vilém Rieger che piange l’esclusione da quella stessa società. Dando uno sguardo alla vita di Havel sembra proprio che, in un turbinio di contraddizioni storiche di un continente che va ora autodistruggendosi, il teatro fosse l’unico mezzo in grado di disegnare una forma costante. Quel “giardino dei ciliegi” che, come ogni cosa, andava abbandonato.
Sergio Lo Gatto