Da Krypton veniva Superman, che prima di diventare un eroe dei fumetti si faceva chiamare Kal El e chissà che attività svolgeva sul suo pianeta rigoglioso: un umanoide tra i tanti, dunque, che per gli uomini sulla Terra divenne un supereroe. Sempre attratti dall’estero, noialtri. Sempre con il pensiero all’altrove, sempre meglio che qui. Ma l’emigrazione può generare tutt’altro, così quando la lingua calabrese si trapianta a Scandicci, Krypton diventa un teatro e il segno esattamente opposto; “la speranza che i giovani continuino a vivere qui, e continuino ad arrivare da altre nazioni per condividere culture, prospettive”: con queste parole il calabrese Giancarlo Cauteruccio apre giovin’Astri, sesta edizione dello Zoom Festival di Scandicci fino a domenica 11 dicembre 2011, con queste parole invita a teatro per restare e diventare noi stessi, giovani e coraggiosi, i nostri supereroi.
Dopo la straordinaria esperienza di un TomTom telefonico (quando una volta si faceva il tamtam, per comunicare) e un’indicazione stradale su un post-it, l’accoglienza sorridente spinge in teatro: due sale gemelle separate da un telo nero ma solo per il festival, durante l’anno la sala è tutta intera. Nella sala di sinistra allora non si fa attendere Pepè el bastardo impaziente e innamorato, monologo in musica della Compagnia Divano Occidentale Orientale, drammaturgia regia e interpretazione di Giuseppe L. Bonifati e alla fisarmonica Francesca Palombo. Prima nazionale di un testo vincitore del Premio Fersen 2011. Pepè è innamorato di Catalina, ma deve abbandonare il suo paese d’origine ed emigrare in America. Da lì inizierà il canto di un ritorno sentimentale all’immagine del suo amore abbandonato. Una scena di pochi elementi, un baule nel mezzo e un cerchio di barattoli attorno, in alto un ananas appesa nel vuoto alle sue spalle, una cornice vuota appesa di fronte a lui: eccolo, l’amore contemplato e quello vissuto, una Giulietta assente, finestra/cornice senza volto è l’immagine, l’ananas impenetrabile e invece succosa, invitante e maestosa almeno quanto s’ignora anche solo maneggiarla. Il testo sceglie la lingua di cuore, d’origine, racconta una storia lontana ma per farlo deve scegliere la lingua a sé più vicina; proprio per questo la musica e la drammaturgia sono in continuo dialogo e inscindibili: per certe lingue intime, quando usate bene, parole e musica sono la stessa cosa. Bonifati costruisce la sua storia con sincerità espressiva che è un pregio di energia ma che genera – senza che sia un grosso disturbo – qualche difetto di pulizia e un ritmo un po’ furente, su cui si dovrà lavorare; lo spettacolo è tuttavia vivo e intenso, con qualche tocco retrò che non guasta, per questa appassionata storia d’amore e – come spesso – di coltello.
L’altra sala di spettacoli ne attende due, in sequenza, ma della stessa artista: Silvia Gribaudi è danzatrice torinese ma che opera nel Veneto dei tanti danzatori e porta qui prima il suo A corpo libero, solo di scena per pochi minuti ma davvero stimolanti. Si presenta con un corpo che pare impacciato, in un tondo di luce sulla parete nera; un abitino a fiori troppo stretto la infastidisce, con quell’elastico sfuggente e un calore irriducibile, sarà la musica esplosiva di The passenger (Lou Reed) – in una bella rincorsa con la luce – a liberarla, finché un canto lirico s’inserirà a intonare un vibrato sulla sua pelle – senza più il vestito – divenuta parte di quel canto. Wait è invece il secondo divertente lavoro, con in scena anche Carla Marazzato ed Elisa Dal Corso. Macerie di polistirolo, sul fondo, due performer si stanno esibendo a centro palco e una non riesce a superare le rovine per raggiungerle. Un lavoro concettuale dunque sulle “diversità a confronto”, vincente perché resta limpido e non si prende sul serio, ma ironizza sul tema e sullo stare in scena, al punto di discuterlo anche con il pubblico: quando due performer iniziano a dibattere su cos’è questo spettacolo, l’altra interviene spiegando che non si può fare in scena, bisogna pensarci prima (o dopo, al limite), così mentre loro alle spalle compongono l’azione scenica lei parla agli spettatori dicendo che non si deve spiegare nulla, ma poi pian piano è lei stessa a complicare tutto in un’analisi infinita, finché le sue parole non si sentono più. La performance e l’analisi intellettuale si disperdono in musica, e diventano l’una e l’altra, alla fine: Rien de rien.
Da quest’ultimo spettacolo si rialza la testa: una sala enorme e tutta nera, un velo nel mezzo a farne due spazi autonomi, due teatri in uno. Il teatro di parola prima, la danza poi. Emigra Pepè dal suo paese e dall’amore, emigra il corpo dall’idea e dal desiderio: due pericoli, due moniti per cui combattere, da eroi umani, soltanto andandoli a vedere. In fondo le sale sono separate, ma la platea è comunicante.
Simone Nebbia