Ssst! Si fa silenzio, al primo battere di una nota iniziatica, sul pianoforte al lato sinistro del palcoscenico, nero, dove siede e danza – per le mani e lo sguardo – Franck Krawczyk. La sala teatrale che aveva vociato fino a quel momento di colpo si interrompe, vibrano i fiati più lentamente, si trattengono i colpi di tosse, si tendono i canali della percezione oltre sé, lanciati dalla platea fino a quelle tavole seminude del palcoscenico. In questa atmosfera di profonda accoglienza, di vitale intensità, è il primo fiato che soffia in Un flauto magico, ultimo lavoro dell’artista teatrale vivente forse più importante al mondo: Peter Brook.
Tamino riceve un ritratto di Pamina, quel ritratto lo innamora al punto da innescarne la partenza alla ricerca della bella sua promessa, rapita dal feroce Sarastro che la tiene lontana dalla sua famiglia e dalle sue grazie; tutto attorno suona la musica del pianoforte che solo tiene all’intera partitura, trapuntato delle voci canore degli attori: un rapimento, di lei, per il rapimento di lui nel vederla, nel sentirla in quelle note. Tra l’immagine e la musica, sembra dire Brook, è quest’amore. Lo spazio è interamente dedicato a questa idea della spoliazione scenica – come suo segno ormai distintivo – con soltanto poche canne di bambù tradotte in vari punti del palco e null’altro, perché sia solo la storia di Tamino e Pamina, divisi con la forza e ricongiunti con l’amore, a nidificare nelle anime di chi ne è spettatore. Questa povertà elementare cui è giunto il suo teatro (che raggiunge le altezze visive in quel grande spazio in cui risiede, Les Bouffes du Nord di Parigi), è la sublimazione di questa sua poetica definita da Georges Banu (sul primo numero dei Quaderni del Teatro di Roma Novembre 2011) della “fragilità infantile” (che Franco Cordelli sul Corsera il 9 dicembre 2007 già rintracciava come l’essenza stessa del teatro, a proposito di Fragments), in cui il palco sembra quasi “minacciato” dalla dissoluzione, in cui è come se lo spettacolo “mi chiamasse per proteggerlo, per vegliare su di lui”. Così è anche il canto che prorompe con forza misurata, quasi pudica, nelle melodie mozartiane. Ma va detto, oltre ogni analisi ed emozione per la storia che passa sotto le nostre finestre (e balconate di teatri), che non basta del tutto quella precisione di tocco, quella pulizia estrema, quell’intenzione finale, a farne uno spettacolo indimenticabile, da cui – se è possibile dirlo – ci si attende forse di più: si ammira, si ama, non resiste però ai sobbalzi climatici e alle intemperie, non ci rende immuni da tutto, come accade invece agli spettacoli immensi.
Ultimo, ho detto di questo spettacolo. Con questo termine si tende ad indicare in italiano ciò che la cronologia ha sospinto fino allo stato attuale, in ordine crescente. Ma spesso s’intende una cronologia in divenire, non come in questo caso in cui la cronologia è stata – o sarà presto – volutamente interrotta. Già perché quest’ultimo spettacolo di Peter Brook sarà davvero l’ultimo, per sua stessa decisione: un testamento anzitempo che del tempo regala gli onori. Per farlo il grande maestro si riserva quest’opera mozartiana che – a prima vista – è tutt’altro che testamentaria. Tuttavia è proprio qui che più diventa chiara l’intenzione artistica che lo muove: l’opera di Mozart si articola attraverso libretto di Emanuel Schikaneder, attore e impresario viennese che deve la sua fortuna di librettista esclusivamente a questo testo, di cui interpretò anche il personaggio di Papageno; quindi siamo di fronte a un testo appunto fragile, che non avrebbe superato il ‘700 se non per il potere della musica e dell’immagine (il ritratto), in cui le parole sono sottratte e riconsegnate all’effige ed al canto, ariose in quella melodia di Mozart che qui si fa quasi liturgia di una messa per le nozze: chissà che non sia allora, per Brook, un matrimonio con il teatro, l’atto di abbandonarlo? L’abbandono, in questo caso, è allora un lascito (appunto, testamentario), un dono a noi che lo vediamo all’ultimo giro di questo ballo. In alto le note di Mozart, non a caso dell’ultima opera prima del Requiem, la sua musica leggera che è fine sorridente, prima della fine.
Simone Nebbia
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visto alla prima romana del 17 novembre 2011
in scena fino al 27 novembre
Teatro Argentina [vai al programma della stagione 2011/2012]
Roma
nel programma del Romaeuropa Festival 2011 [vai al calendario del festival]
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Un flauto magico
da Wolfgang Amadeus Mozart
liberamente adattatato da Peter Brook, Franck Krawczyk e Marie-Hélène Estienne
regia di Peter Brook
Coproduzione: Una coproduzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa; C.I.C.T. / Théâtre des Bouffes du Nord, Paris; Festival d’Automne à Paris; Attiki Cultural Society, Atene; Musikfest, Brema, Théâtre de Caen, Caen; MC2, Grenoble; barbican, Londra; Les Théatre de la Ville de Luxembourg; Lincoln Center Festival, New York Produttore delegato: C.I.C.T. / Théâtre des Bouffes du Nord, Paris
co-realizzazione Romaeuropa Festival 2011 e Teatro di Roma – produzione esecutiva degli spettacoli a Roma: Romaeuropa Festival 2011
Al pianoforte Franck Krawczyk
con (in alternanza) Dima Bawab, Leila Benhamza, Malia Bendi-Merad, Jean-Christophe Born, Thomas Dolié, Antonio Figueroa, Virgile Frannais, Betsabée Haas, Agnieszka Slawinska, Adrian Strooper, Anne-Emmanuelle Davy, Aylin Sezer, Vincent Pavesi, Jan Kucera, Romain Pascal
Attori William Nadylam, Abdou Ouologuem
Costumi Hélène Patarto con l’aiuto di Oria Puppo