«La scena è ambientata ad Atene. Fedra è innamorata follemente del figliastro Ippolito, ma ha paura a rivelarlo; spinta dalla nutrice, rivela il suo amore, e Ippolito, indignato, fugge dalla reggia. Fedra decide di vendicarsi: quando Teseo ritorna dalla sua impresa negli Inferi, gli racconta mentendo che Ippolito ha cercato di abusare di lei. Teseo, infuriato, invoca la maledizione sul figlio, che muore in maniera orribile, trascinato nella natura dove non c’era un tronco senza una parte del suo corpo. Quando il cadavere di Ippolito viene riportato alla reggia, Fedra confessa il suo delitto a Teseo e si uccide. Al padre non resta che piangere la propria sorte, e ricompone con l’aiuto del Coro il corpo del figlio fatto a pezzi. E ordina ai servi di gettare il corpo di Fedra in una fossa». Per una volta possiamo citare integralmente la trama come riportata da Wikipedia senza sentirci sfaticati o inadempienti. A sdoganarne l’uso è lo stesso Andrea Cosentino nel testo della sua Fedra rivista a tranci, in scena al Teatro Argot.
Teseo (interpretato da Cosentino) va talmente fiero della propria biografia condensata alla Reader’s Digest dall'”enciclopedia libera” da chiedere al figlio Ippolito di leggerla per esteso, al cospetto del pubblico di una improbabile conferenza stampa di presentazione della “tragica famiglia”. In smoking nero e camicia rossa padre e figlio, in abito da cocktail Fedra, che si atteggia a first lady e sfodera disarmanti sorrisi finti, pieni di denti e insicurezza. In scena, oltre ai tre attori, pochi elementi ben distribuiti: il muso di una macchina d’epoca che sa di Papa-Mobile; la fantomatica macchina “sconocchia-quatrani”; un angolo microfonato e lo schermo tv da dietro il quale va in onda Telemomò. Non risultasse sufficiente la semplice presenza di Cosentino, ad annullare la quarta parete ci pensa la presentazione dei personaggi: Teseo, uscendo, promette al pubblico e ai due protagonisti che tutto quello che deve accadere accadrà, ché in una tragedia ogni cosa è già decisa dal Fato. Cosentino riserva per sé anche la parte della nutrice (uno dei suoi esilaranti personaggi abruzzesi), che convince Fedra a dichiararsi al figliastro. Il corteggiamento tra i due è traslato su Barbie e Ken, conciati a immagine e somiglianza degli attori, alle prese con una recitazione sopra le righe, intonata all’ambientazione tra l’assurdo e il kitsch. I personaggi della tragedia di Seneca, com’è giusto, sopravvivono con funzione d’archetipo; la drammaturgia, adorabilmente sbilenca, li lascia appesi alla storia come marionette, appese ai propri fili a testa in giù, penzolanti a giunture libere. Tra musiche pop e sorrisi patinati, la regia di Valentina Rosati veste il tutto di un’appeal alla Fratelli Marx, in cui Cosentino riesce, senza sorprese, a stare comodo, mentre a rendere godibile un andamento e un climax tutto sommato non spumeggianti è proprio qualche inezione dei suoi successi del passato, da Telemomò ad Antò Le momò. Il gioco a tre, in cui Simone Castano ed Elisa Marinoni non sfigurano ma fanno anzi da degno contraltare, risulta comunque poco riuscito, forse semplicemente perché povero di una vera e originale riflessione sui cortocircuiti tragico/comico e un po’ soffocato da una regia poco fluida e che avrebbe potuto osare di più.
Il filo della chiave sta forse anche nel titolo, quel Fedra rivista a tranci in cui il participio si fa anche sostantivo, alludendo quel genere comico della prima metà del Novecento: divisa in piccoli quadri, con pochi o nulli spazi lasciati alla riflessione amara, la commedia scoppietta come popcorn senza poi esplodere davvero, insieme caratteristica e limite del genere. Nonostante le risate sincere, strappate come sempre da qualche coda di battuta caustica o dalla massa di non-sense che fa da sfondo (una scena su tutti quella, davvero trasversale, della trappola per Dio), si sente la mancanza del Cosentino dei Primi passi sulla luna, con quella maestria sfacciata e lo squarcio sincero aperto tra i due mondi al di qua e al di là della scena. E quella ricerca sul linguaggio comico e sui limiti liquidi della rappresentazione, condotta con un piede nella fossa di Chaplin e l’altro in quella di Kantor, resta ferma nell’esperimento più ruvido ma geniale di Esercizi di rianimazione, senza osservare qui un reale progresso.
Sergio Lo Gatto
in scena fino al 20 novembre 2011
Teatro Argot [vai al cartellone 2011/2012]
Roma
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Fedra – rivista a tranci
di Andrea Cosentino
regia Valentina Rosati
con Simone Castano, Andrea Cosentino, Elisa Marinoni
scenografia Paolo Garau
Luci Dario Aggioli
Assistente alla regia Angelica Marcucci
Direttore dell’allestimento Mauro Marasà
Comunicazione e ufficio stampa Beatrice Giongo
Promozione Benedetta Morico
Produzione Teatro Stabile Delle Marche – Infinito Srl/Pierfrancesco Pisani
In collaborazione con Amat – Belteatro – Bottega Rosenguild – Argot Studio – Teatro Forsennato
Condivido pienamente la recensione, ma non il punto di partenza e l’arrivo.
Il presupposto è che lo spettacolo è di Andrea Cosentino, mentre l’operazione è diversa: qui il teatro indipendente incontra uno stabile anchilosato. Un drammaturgo di un mondo incontra una regista di un altro mondo…
Per questo non mi sentirei di paragonare questo spettacolo a Primi Passi e a Esercizi, che sono certamente superiori, ma mi domanderei perché questi non accedono e non possono accedere ad uno stabile, mentre una produzione così invece sí?
Per un pubblico non abituato?
Per una logica di poteri e scambi?
Ps
L’arte del riciclo di Cosentino è giustificata da questo articolo che oltre a esaltare i “pezzi” della rivista già visti, non ripropone correttamente il nome del macchinario visto almeno in 3 spettacoli. Forse al quarto spettacolo il pubblico e i critici lo ricorderanno e sarà inutile almeno nominarlo… 😉
ERRATA CORRIGE!
Con non notevole tempismo giungo a correggere un grave refuso di questo pezzo: il ps del commento di Dario a proposito del “macchinario visto almeno in 3 spettacoli” si riferisce alla “macchina sconocchia-quatrani”. Al momento della pubblicazione era stata chiamata da me “macchina sconocchia-capretti”. Per imperdonabile negligenza di cui mi scuso con l’autore e con i lettori. Grazie a Dario per la pur sarcastica segnalazione. SLG