HomeVISIONIRecensioniCan we talk about this? di DV8. Una riflessione su apertura e...

Can we talk about this? di DV8. Una riflessione su apertura e democrazia

Abbiamo il piacere di pubblicare un denso approfondimento che, prendendo le mosse dall’ultimo spettacolo di DV8 Physical Theatre Can We Talk About This?, ragiona sul concetto di relativismo, di multiculturalismo e di apertura. L’autore, Karl Svantesson, vive e lavora nei pressi di Stoccolma, dove scrive di danza per vari periodici tra cui Danstidningen e insegna storia e cultura svedese alle scuole medie.

Me ne sto sulla spiaggia con un amico italiano, entrambi con le braccia incrociate sul petto, a guardare i nostri figli giocare e parlando delle manie del mondo di oggi. “Io ho avuto la mia parte, ma loro? – dice indicando i bambini che nuotano – A loro che mondo abbiamo regalato?” Sì. C’è qualcosa che non va. Il mondo è cambiato. Percepite, sentite come me che nel modo in cui ci stiamo comportando nei confronti della vita stessa c’è una certa malizia? E non vi sembra sia così già da tempo? Siamo diversi? Qualcosa abbiamo imparato?

Il nuovo spettacolo dei DV8 Can We Talk About This? si interroga a fondo sulla direzione verso cui la società civile sta andando. Lo fanno affacciandosi a uno dei temi più importanti nel mondo contemporaneo, la libertà di espressione e la sua relazione con il multiculturalismo. Una materia fortemente discussa, governata da un legge che non è per tutti, né ovunque. Di per sé stretta tra le colonne di numerose agende, in contesti sia individuali che collettivi. Il relativismo è la salvezza per molti di noi, ma i costi li paga la logica e la logica dovrebbe essere parte di quel relativismo. Forse è per questo che non ci sentiamo a nostro agio. Il costo della vita è talmente alto che non ne afferriamo il significato e cadiamo nel relativismo, rimanendo vittime di una trappola morale. Ciascuno di noi, per come siamo stati cresciuti tra infanzia e adolescenza, conosciamo le restrizioni, dei limiti dovevano essere tracciati in modo che ci sentissimo al sicuro con noi stessi. Parafrasando Simone Weil, senza limiti finiamo per diventare cattivi. Ma se disegnamo una legge precisa intorno alla libertà di espressione, che succede alla democrazia, all’apertura e alla religione? Ora più che mai il ragionamento di Michel Foucault attorno alla parresia potrebbe essere posto al centro per mettere ordine su questi argomenti. “Parresia, parlare liberamente e con franchezza, senza manipolare, a servizio del bene comune”. Il multiculturalismo ha eroso la libertà di espressione, abbiamo paura di parlare liberamente e con franchezza perché non conosciamo più quel bene comune o è solo che temiamo le conseguenze di quella franchezza? Mettiamola in un altro modo, il rischio insito nella libertà di espressione ha eroso il multiculturalismo nella cultura relativista, la franchezza ha creato per il bene comune una nuova attitudine a manipolare il linguaggio nazionale che nasconde  in sé la “vera” franchezza? E’ davvero questo il relativismo? Sappiamo davvero che cosa diciamo e scriviamo pubblicamente, siamo al corrente di aver smarrito il nostro linguaggio etico?[…] Nei lavori più recenti, a partire da Enter Achilles, passando a The Happiest Day of My Life, Just for Show e ora To Be Straight With You e Can We Talk About This? Lloyd Newson e i suoi [che partivano da un teatro-danza più fisico, ndt] hanno spostato il fuoco su un teatro più verbale, in cui i corpi rappresentano e danno voce a qualcos’altro, qualcosa che non è lì, è assente. Si è creata così una sorta di espressione meccanica, in cui i monitor sul palco aiutano in quanto oggetti esterni nella proiezione di una reale azione dal vivo che è la stessa per tutti, spettatore e artista. Mentre sui monitor passano le notizie suddividendo l’energia di corpi, voce e testo in tre diverse direzioni, DV8 riflette sulla difficoltà della comunicazione sociale e politica di oggi. I microfoni vengono portati via.

Le parole di persone come Theo Van Gogh e Flemming Rose vengono usate per tracciare una sorta di manifesto di estremismo e di come una società democratica non potrebbe essere aperta se una reale minaccia incombesse sulla libertà di espressione. Quasi come una doppia autocensura, in Can We Talk About This? DV8 sostiene che chiunque, persino l’artista stesso, resta al di fuori della comunicazione. Spettatore di se stesso.Ma forse abbiamo frainteso tutto. Forse l’apertura si verifica davvero nella forma di un desiderio subconscio nei confronti dell’unicità del progetto. E questo è semplice, ma in un contesto politico, un caso di orribile malinteso può verificarsi confondendo l’alterità come un elemento emarginato dall’apertura. Pensiamoci un attimo. Ogni qualvolta, in musica, ci capita di ascoltare un crescendo di apertura, ci situiamo immediatamente in una condizione di attesa, minacciamo quella stessa apertura, non ne afferriamo il significato, quello di trovarsi, appunto, in un luogo che dimostra un’ apertura. Il monismo, l’individualità, è un omologo del pluralismo. E il pluralismo procede mano per la mano con il multiculturalismo. Proiettando quell’individualismo su una società multiculturale, le differenze tra noi e gli altri risultano ovvie e i limiti si tracciano da soli, ma facendo la stessa cosa attraverso un’apertura le differenze vengono ingoiate dal relativismo che in un senso estremo, è in grado di adottare e nutrire il fondamentalismo, il terrorismo, e noi torniamo ad essere soli.

Che cosa vi fa paura? Che cosa vi offende? Il punto d’incontro del linguaggio si individua solo quando esso ti spinge a muoverti, quando parole e movimenti ti raggiungono dove sei. Che cosa abbiamo in comune? Che cosa condividiamo? In Can We Talk About This? DV8 pone domande sul futuro, sulla società civile senza fornire risposte dirette. Lo spettacolo è situato in una sorta di cortile scolastico, i bambini e i loro insegnanti, i genitori vengono coinvolti ma anche la questione dell’insegnamento e della religione. E’ questa la vera arena della libertà di espressione? In un senso profondo, la danza stessa prevale con il suo silenzio, rivela quanto difficile possa essere tutto questo: dall’estrema destra all’Islam, giovani e vecchi, uno accanto all’altra, vicini nel corpo e nella mente, vivere insieme senza parole o leggi forti abbastanza da essere comprese e sostenute da tutti. Ma se ribaltiamo tutto questo, anche questo silenzio può essere un punto di partenza, un’opportunità di far crescere le cose nel mezzo. Limitarsi a vivere lì, nel mezzo di tutto e tutti come giardinieri dal linguaggio silenzioso, senza il bisogno urgente di condividere i nostri desideri segreti attraverso parole o attori è forse una delle cose più radicali che possiamo fare oggi, custodi di un cuore che cresce. La sorgente di ogni religione, il centro dell’etica, è la pazienza nei confronti degli altri e la capacità di lasciar crescere quella pazienza fino a includere tutto e tutti. Siamo diversi, abbiamo imparato? Guardate i bambini, chiediamoglielo. Forse loro hanno una risposta.

Karl Svantesson [traduzione dall’inglese di Sergio Lo Gatto]

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 33 – 2011 della rivista Scène. Tutti i diritti riservati. Utilizzo concesso direttamente dall’autore e limitato a questa pubblicazione.

Leggi anche la recensione di Matteo Antonaci

Leggi tutti gli articoli di Romaeuropa Festival 2011

Telegram

Iscriviti gratuitamente al nostro canale Telegram per ricevere articoli come questo

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here

Pubblica i tuoi comunicati

Il tuo comunicato su Teatro e Critica e sui nostri social

ULTIMI ARTICOLI

Orecchie che vedono: la danza che si ascolta a Gender Bender

Al festival bolognese Gender Bender molte sono state le proposte di danza, tra le quali sono emerse con forza il corpo resistente di Claudia...