È passato qualche giorno, prima di disegnare questo nuovo tragitto di Atlante. Nelle rotte precedenti il mio piccolo veliero da vasche da bagno aveva incrociato in mare aperto le prue di due caravelle fra le più ammaestrate per i viaggi lontani, per le nuove scoperte, per le magnifiche conquiste intellettuali. Renato Palazzi e Franco Cordelli. Ho cercato di lanciare una nota stonata nella loro voce che sentivo assonante, quel lieve accenno che avvertivo a una separazione fra il ruolo del critico che si spazientisce per un pubblico maleducato e non sufficientemente edotto e proprio quel pubblico che a teatro ci va, comunque sia, e almeno a differenza di noi tre – barchette o caravelle che si sia – paga anche il biglietto.
Quel ch’è accaduto dopo registra eventi tra i più importanti che potessero. Palazzi – minato dopo quell’articolo da una lettera scritta da Massimo Munaro, regista del Teatro del Lemming, in cui si lanciano accuse a pioggia su ogni tentativo di fare critica, di cui non voglio dar conto perché ritengo gli spunti di Munaro inariditi da una modalità che disapprovo – ha scritto un intervento di risposta in un commento appena sotto il suo primo articolo, riportando l’intera corrispondenza con Munaro e anche un bell’articolo di Roberto Rinaldi, apparso su Rumor(s)cena. Al di là del merito, per cui rimando alla lettura, c’è un dato ineludibile e riguarda la discesa in campo in un territorio che apre alla critica on line in una misura esponenziale, la carica di senso e di firme importanti, decretando un passo del tempo che non fa più paura e permette un confronto che dona a questo mezzo – la rete – una dignità culturale. Ne guadagna io credo il lavoro di tutti. Anche per la facile tracciabilità, in effetti. Ma c’è anche altro: da questo dibattito è scaturita una reazione a molti livelli, bellissima idea quella di ateatro di riproporre articoli degli ultimi anni attorno a vecchi dibattiti sulla funzione critica, tuttavia trovo invece che la scelta (sempre di ateatro) di ricercare confronto e consenso sui social network come Facebook, dove per prendere posizione si propone un “tu da che parti stai?” con possibilità di votare la posizione migliore fra queste ricordate, non faccia troppo bene all’ecologia della discussione, e perda in autorità, rischio che a ciò che appare in rete – diversamente dalla “vecchia” carta stampata – è già pericolosamente connaturato.
Franco Cordelli invece ha risposto proprio ad Atlante, in un articolo apparso sul Corriere della Sera del 1^ ottobre 2011, in cui lo scrittore rettifica e scioglie l’ambiguità della dichiarazione che avevo sottolineato nel mio intervento. Cordelli fornisce un’istruzione per “ignorantissimi” chiarendo che il suo consiglio di leggere prima di entrare a teatro era in relazione al foglio di sala (che definisce “parte integrante dello spettacolo”), e non era invece intenzionato a consigliare una preparazione di studio al pubblico che in quella sala interviene. Nel merito, apprezzando il chiarimento che permette di capire meglio il suo intento, continuo a non essere d’accordo: il foglio di sala non può e non deve a mio avviso entrare in relazione con lo spettacolo prima che esso accada, anche nel caso in cui capiti di averlo prima io cerco di evitare che intervenga sul mio giudizio di spettatore critico, soltanto dopo aiuterà a riannodare alcuni fili dispersi e fornirà materiale per un maggiore approfondimento. Non è l’innocenza del critico che si propone, sepolta la prima volta che ho messo piede in un teatro, ma quello sforzo a saper considerare continuamente la differenza fra percezione ed erudizione, fra esperienza e intellettualismo. Nel caso di T.E.L. io insisto nel dire che si viene spostati su un piano totalmente sperimentale, non esperienziale: la dislocazione spaziale e il conseguente dialogo a distanza fra i due attori non trovo abbia relazione con la materia proposta, ossia l’ormai famigerato a questo punto T. E. Lawrence. Si ptrebbe parlare d’altro e non sentirei differenza. Ma ancora peggio è che ci si annoia, detto senza grossi abbellimenti dello scrivere, senza le parole “da critico”, che invece sono: la cellula teatro non ha – per mio desiderio di appartenere – generato compresenza. Beh, peraltro difficile in un gioco di dislocazione, in effetti. Ma questa noia non avrebbe senso se fosse soltanto un mio sentimento di platea, ne ha invece perché è il frutto di quello svuotamento di contenuto in piena, assoluta adesione alla forma. Lawrence d’Arabia e la rivolta nel deserto, I Sette Pilastri della Saggezza che ne scrisse, restano ad esclusiva lettura sul foglio di sala.
Ma torniamo al punto: curiosamente la nota che sentivo risuonare nello scorso diapason, risuona in un’altra tonalità ora. Sia Palazzi che Cordelli hanno – chissà quanto coscientemente – spostato un dibattito di questa levatura su pagine web: Palazzi su un sito dove scrive da anni, Cordelli addirittura interagendo dalle colonne di uno dei più grandi quotidiani nazionali. Questo è un punto epocale che inizia a rendere con precisione quel grande fermento culturale che c’è attorno al teatro in questi ultimi anni e che sta tornando verso il confronto aperto, il dialogo, perché no la polemica di valore, la connessione fra sguardi e visioni differenti che anima ogni uscita di sala in tante città d’Italia, che si tratti di critici “giovani” o che si tratti di “maturi”, che siano imbarcazioni da porto o da mare largo. Ma tutto questo da uno scoglio è difficile vederlo, caro signor Munaro.
Simone Nebbia