“Provo a rispondere io a quello che vorrei chiedeste a me”. Questa frase, pronunciata nella platea chiamata in assemblea al Teatro Valle Occupato in Roma dall’attrice Silvia Gallerano, riassume in maniera schematica ma abbastanza esauriente quanto uscito dall’incontro fra gli occupanti e “il teatro indipendente” soprattutto romano. Già la stessa denominazione dell’incontro chiede una riflessione accurata: a prima vista, soprattutto in uno sguardo lontano, si pensava che fra gli occupanti ci fossero gli schieramenti che maggiormente in questi anni si sono spesi in attività di politica culturale dal basso, innescando processi di occupazione di spazi e di protesta collettiva. In realtà ben presto ci si è accorti che questo non era avvenuto, che fra di loro maggiore forza veniva da altri scenari, anche e soprattutto in ambienti limitrofi al teatro ma poco connessi con questa rete del sottobosco cittadino. Da questa dimensione di leggero scollamento, non subito così visibile, in tre mesi di occupazione si è giunti a una serpeggiante divisione e un conseguente smarrimento fra proposte e ricezione, fra idee di lotta comune, desiderio di coinvolgimento e insieme però anche la netta sensazione di una marginalità irrimediabile rispetto all’evoluzione che questa lotta stava e sta vivendo. Per tutto questo, oggi che sono finiti i festival estivi in cui di più il territorio indipendente ha parte attiva, buon ultimo proprio il romano Short Theatre, è stato proposto un appuntamento di confronto, ragionando proprio su questo strana lontananza all’inizio imprevedibile (o almeno poco spiegabile).
La riunione, avvenuta nel pomeriggio del 21 settembre 2011 fra le poltroncine rosse della sala capitolina, s’è aperta dichiarando questo disagio di alcuni – molti – in relazione alla distanza indubitabile che si è venuta a creare in questi primi cento giorni di occupazione, cercando ad essa risposte e con il desiderio di colmarle, almeno in parte. A queste istante, nobili, di condivisione, purtroppo l’incontro non ha portato alimento e s’è tenuto su tematiche sì importanti ma che forse saltavano il passaggio principale che era poi nel titolo della chiamata: per quale motivo c’è stata e c’è ancora questa distanza? A questa domanda nessuno ha saputo trovare una risposta concreta, e neanche io che sto scrivendo ne ho una, riuscendo soltanto ad articolare una piccola cronaca dell’evento: il sentimento più forte di quelli che per convenzione chiameremo “gli indipendenti” (ma poi da chi? E soprattutto: gli altri da chi dipendono?) è di profonda confusione rispetto alle dinamiche cresciute all’interno dell’occupazione, sostenuta ma non partecipata da troppi in questa città per non essere un determinante scoglio alla condivisione cercata. Molti, per un motivo o per l’altro, se ne sono sentiti esclusi o se ne sono esclusi autonomamente, il risultato ne è proprio una riunione timida, un po’ fredda, cui sicuro dovrà seguire qualche altra azione perché si possa amplificare il piccolo seme di apertura che comunque, nonostante tutto, resta vivo.
In ultimo: qualche giorno fa Andrea Porcheddu, in un articolo uscito il 19 settembre 2011 su Ateatro, testata diretta da Oliviero Ponte di Pino, cercava risposte a questa confusione affondando una riflessione soprattutto sull’efficacia di un’occupazione in fondo troppo tollerabile come quella di un teatro il cui mancato sgombero, aggiungo, dimostra esattamente la marginalità dell’ambiente rispetto al resto: ciò che non dà fastidio non ha bisogno di essere rimosso. Porcheddu chiede – fra le altre ragionevoli domande – perché non si blocchi tutto l’indotto, le attività collaterali che decisamente spostano più denaro e quindi interessi, come i turni di doppiaggio, le pose e le maestranze per le fiction, per i film, per la pubblicità, andando cioè a colpire un’industria nel centro nevralgico della sua economia, non in un settore già di per sé ghettizzato e che rischia di aprire una falla ancora maggiore, soprattutto se la popolazione inizierà a dare ascolto a chi ne cerca approvazione dichiarando l’illegittimità di tale movimento di lotta (cosa peraltro non così lontana dalla realtà). Questi tre mesi di occupazione sono stati una sorpresa, per gli occupanti in primis e poi per l’intero ambiente teatrale, la speranza è che non diventi un boomerang per chi ha compiuto una lodevole operazione, e che davvero una chiarezza d’intenti arrivi a coinvolgere anche chi, fino a questo momento, è rimasto nel suo isolato isolamento.
Simone Nebbia
io ce l’ho un’idea sul perchè c’è scollamento. e l’idea è in qualche modo collegata al fatto che tocca bloccare le fiction per salvare il teatro. la mia idea è questa: non solo il teatro è ghettizzato, come avete già scritto, e questo non è grave di per sé, può succedere, ma il problema è che al teatro, masochisticamente, piace, stare nel ghetto. non fa niente per uscire. dentro il magico mondo del teatro ci si continua a fare i complimenti a vicenda, senza curarsi del fatto che il mondo di fuori non ha neanche la curiosità di dare un’occhiata nel ghetto.
ogni tanto capita qualche buona idea e qualcuno che riesce a inventarsi un trucchetto per far venire voglia alla gente di sbirciare; ma, congenitamente, alle persone, quelle che vanno dal barbiere, fanno la spesa e guardano la televisione, non frega una mazza. e al teatro gli piace tanto fare l’alternativo. e più si è alternativi più si è fighi in teatro. è questa la spinta propulsiva. e si finisce, inevitabilmente, per fare i ghetti dentro al ghetto. invece di dire “porca miseria, facciamo un pò di casino tutti insieme, cerchiamo insieme di capire perchè girandoci e rigirandoci vediamo sempre le nostre facce smunte e basta” invece di domandarsi dove si è sbagliato…si fa la guerra, tra di noi, tra i ghettizzati…
un pò semplicistica come spiegazione. ma, secondo me, qualcosina di vero..c’è…
va bene, sono d’accordo col commento che dice del ghetto e del gusto del ghetto e qualcosona di vero c’è senz’altro, ma obietto su un punto, per me fondamentale: va bene che il ghetto è un ghetto e che c’è bisogno della boccata d’aria del mondo esterno (lo sguardo degli altri fuori dal ghetto, una curiosità, un dibattino che penetri un po’ di più il resto della società che non si occupa di teatro) e che l’alternativo per l’alternativo, qualora si presentasse, è un’aberrazione, però ghetto o non ghetto prima del problema di convincere gli altri a dare un’occhiata nel ghetto va risolto il problema di fare qualcosa che abbia un senso, che una volta guardato sia sensato. Se no è come per il Valle, dove – e alla riunione mi pare che emergesse, se non altro come timore di alcuni – c’è fortemente il rischio che il riflettore conquistato a colpi di mass media e di fatica promozionale e strategica da questa “occupazione mediatica” del Valle illumini uno spazio dove non c’è proprio un cazzo di interessante, con centri di drammaturgia senza drammaturghi e via dicendo, utopie democratiche senza democrazia eccetera.
Uscire dal ghetto è importante, ma ad uscire dal ghetto dev’essere qualcosa, se no – per quanto consolatorio sia – nel ghetto meglio morirci da soli ma in compagnia del po’ di senso che il lavoro e la fatica di una vita ti hanno conquistato.
Vabbè, comunque sono d’accordo. Meglio uscirci. E meglio non farsi la guerra tra fratelli “poveri”, ammesso che stiamo parlando davvero di fratelli e di poveri.
Un bacio falsamente confuso,
Dt
PS: comunque diffido la prossima volta Simone Nebbia dal fotografarmi e mettermi on line in un suo pezzo senza comunicarmelo preventivamente 🙂
Cari commentatori, il fatto che siate voi a commentare e io a rispondere fa un po’ da conteggio conclusivo delle forze in campo, mi spiego: un ghetto è tale se qualcuno lo recinta o si recinta solo, in questo caso specifico ho l’impressione di non capire quale sia il ghetto, o meglio quanti siano questi settori di un ghetto più grande ma che sempre ghetto è. Mi sembra che fra poveri e poveri non diventi ricco nessuno.
@Daniele: eri nella posa perfetta, la tua qualità performativa deborda anche quando non te ne accorgi… 😉
Come si capisce quando uno è Indipendente o Dipendente?
Sono un Nano giovane e sono da poco nel meraviglioso mondo del teatro e non ci capisco molto.
Io sono stato al Valle, e mi hanno fatto esibire nel foyer (che ha un’ottima acustica) quindi sono più indipendente dell’indipendente di Jovanotti?
Io sono intervenuto all’assemblea e se mai ci risarà un’altra assemblea ribadirò le mie idee e le chiarificherò. Alla fine dell’assemblea Paolo Giovannucci è rimasto colpito negativamente dalle mie domande, le ha prese come una critica alla “rivoluzione” (è virgolettato perché cito i discorsi degli occupanti).
Le mie domande erano finalizzate a capire se la loro lotta è anche la mia lotta: ma le domande sono rimaste senza risposta.
Per me è importante che tipo di rivoluzione sia. La rivoluzione si fa per tre motivi: la rivoluzione per la rivoluzione, la rivoluzione per gioco, la rivoluzione per professione. A me interessa la prima e l’unico modo per ottenerla è una eticità ferrea… A quello puntavano le mie domande.
E comunque impietosi con Timpano!