Un giovane di origine brasiliana e d’importazione olandese che in cinque anni ha tirato su un gruppo di artisti universalmente riconosciuto e osannato da pubblico e critica, al momento impegnato in una tournée senza sosta in giro per il mondo, desta di per sé qualche curiosità. Ma chi diavolo è questo Duda Paiva?
Lo incontri a Charleville-Mézières, la piccola cittadina delle Ardenne dove segui per tre brevi giornate il Festival Mondial des Théâtres de Marionnette, la kermesse in assoluto più grande che quest’anno festeggia ben 50 edizioni. Una sorta di carnevale teatrale in cui passa davvero ogni genere di cosa. Quello di Duda Paiva è l’ultimo spettacolo che vedi. La platea della Salle du Mont Olympe è gremita, per questa prima che porta in Francia uno spettacolo che in Italia aveva già debuttato, nel festival Teatro a Corte a Torino.
Liberamente ispirata al romanzo L’arrache-coeur dell’eclettico Boris Vian, la storia prende la forma di una sorta di viaggio onirico non troppo differente da Alice in Wonderland. Al suono del brano (anche questo di Vian) J’suis snob, un distinto ed euforico tipo in abito scuro sviene, ubriaco, tra i rifiuti di una sudicia discarica. Al suo risveglio, si scoprirà trasportato in una dimensione parallela da cui è impossibile uscire, popolata solo da una coppia di vecchietti decrepiti. Lei senza gambe, lui completamente decerebrato, terranno prigioniero l’avventore, offrendogli in ricompensa la liberazione se ritroverà Rumba, il loro gatto smarrito.
In scena c’è solo Paiva, tutti gli altri personaggi (i due anziani, il gatto e un esilarante testa di cavallo che ogni tanto si impossessa della sua gamba) sono pupazzi di gommapiuma. Sesta produzione della Duda Paiva Company, Bastard! vale come piccola summa del lavoro di questo artista assolutamente imprevedibile, che qui unisce doti di mattatore irriverente, comicità demenziale, sopraffina abilità di costruzione e manipolazione di pupazzi, ventriloquio, danza, videoproiezioni ed estro drammaturgico in una sarabanda di segni e suggestioni che è grande intrattenimento e, al contempo, raffinata riflessione sulla logica del teatro di figura.
Al termine dello spettacolo, attendi che l’incredibile flusso di gente faccia il proprio pellegrinaggio in scena, tastando la consistenza morbida di quei pupazzi che ha imparato ad amare, dispensando sguardi ammirati e imbarazzati al loro idolo, che accetta di firmare autografi e di posare per fotografie con le sue creature. Una sorta di red carpet in pillole.
Poi ti avvicini, ti presenti, spieghi chi sei e perché sei lì e lo inviti per una birra. Lui risponde che la compagnia sta andando a cena, se vuoi unirti fa piacere a tutti. In un’atmosfera assolutamente informale, fai la conoscenza dell’intero crew, atterrato quella stessa mattina con un aereo che veniva da San Paolo e in partenza di lì a 30 ore per una traversata in furgone Charleville-Ostrava, Repubblica Ceca. Tu e Duda entrate nel van direttamente dal portellone del portabagagli, dove vi sistemate, uno di fronte all’altro.
«Stai girando molto», osservi dopo il piccolo riassunto delle prossime date che la tour manager norvegese ti ha appena sciorinato. «Senza sosta», risponde Duda, che ha avuto tempo per cambiarsi d’abito ma sutto gli occhi ha ancora il nero del trucco di scena. Prima ancora che tu possa cominciare con le tue domande alla Marzullo, di cui tutto sommato andresti pure fiero, è lui che in breve ti spiega come dal teatro sia arrivato ai foam puppets. Dice semplicemente che rimanere attore gli sarebbe sembrato “un peccato”. Nel 1996 approda in Olanda dove studia danza e lavora con RAZ, Rogie & Company, Itzik Galili, Paul Selwyn Norton e Ron Bunzl. Ma neanche quello era sufficiente. «Per raggiungere davvero quel contatto con il pubblico, che nella danza è quasi sempre distaccato e freddo, ho deciso di andare ancora oltre». Con la produzione di Loot (1998), creata per il CaDance festival di danza moderna de L’Aia, comincia la sfida dei pupazzi. «Io tento di rappresentare le emozioni umane, quelle più semplici, più basilari, le pulsioni. Per questo uso materiali poveri, di riciclo, ma che hanno un gran potenziale di trasformazione. La gommapiuma è come l’animo umano, si lascia corrompere».
Una sequenza dello spettacolo su tutte le altre ti sembra emblematica, quella in cui Duda presta le gambe alla vecchia, monca dalla vita in giù. Insieme creano una sorta di centauro che danza con una leggiadria indescrivibile, producendo nello spettatore una sensazione di forte contrasto, una forza appesa da un lato alla repulsione, dall’altro alla commozione. La performance sembra girare quasi sempre intorno a un’azione fondamentale, cioè l’interazione tra animatore e pupazzo, tirata qui fino all’eccesso, verso una vera e propria fusione, che inganna addirittura l’occhio. Allora, mentre il van vi scarica al parcheggio dietro Place Ducale, trovi spazio per una domanda delle tue:
«In scena è l’attore che deve diventare un pupazzo o il pupazzo che deve diventare un attore?»
«È il pupazzo che deve diventare danzatore», ti zittisce Duda. Mentre attraversate le vie di Charleville già deserte, qualcuno del gruppo vi passa una bottiglia di birra, che stappate in silenzio. Passi a commentare il lavoro drammaturgico, che ti sembra molto interessante. Discutete di come, manovrando pupazzi in scena, sia difficile aggiungere altro alla performance.
«Soprattutto se lo sai fare bene, quell’azione lì di per sé al pubblico può bastare», dice lui senza modestia. «Sì – concordi – stai già dando una motivazione, presentando un’istanza. Ma è la narrazione che fai per immagini a dare spessore a quello che accade in scena». Vi trovate d’accordo e cominciate inevitabilmente a parlare di Neville Tranter e degli Stuffed Puppet. L’artista australiano è per Duda come un padre spirituale. «Neville mi ha insegnato tutto. Tutto. Dai materiali alle motivazioni». Lui è in grado di far passare attraverso la propria presenza e quella dei suoi (inquietantissimi, terribili) pupazzi un ragionamento sulla funzione di persuasione che il teatro possiede in potenza. «Ma devi essere in grado – spiega – di farti da parte come performer, consegnare tutto ai pupazzi e poi aggiungere un messaggio». Nel caso di Bastard! un ottimo lavoro è svolto anche dal video preregistrato, innesto straniante che riesce a prendersi lo spazio per creare, senza eccessivo ingombro, uno spessore nel ragionamento sul tempo dilatato proprio della dimensione onirica.
E c’è poi la componente danza, che crea una contraddizione definitiva: la coreografia è l’iperbole del lavoro sul corpo, mentre quello che chiede l’animazione è, ancora una volta, l’annullamento del performer.
«In definitiva è un trucco magico», azzardo.
«È una tecnica», risponde Duda mentre mi offre l’ultimo sorso di birra.
Sergio Lo Gatto