Edimburgo è in procinto di aprire le danze. La cosiddetta città dei festival, epiteto che proviene dall’effettiva quantità di showcase che la affollano (12 tra musica, teatro, danza e arte nel solo mese di agosto), replica quest’anno per la 64esima volta quello che in tutto e per tutto è un carnevale teatrale. Forse il più animato. Di certo il più ricco, il più di tendenza. Ad Avignon ci era capitato di andarci in macchina qualche estate fa ed era stato senza dubbio emozionante il tragitto in macchina a fendere la Provenza, notevole il flusso di grandi e piccoli capolavori tra le vie del borgo medievale che era stato rifugio e reggia dei papi. Ma Edimburgo resta una città storica, pervasa da un’atmosfera magica che resiste anche sotto la patina da “posto alla moda” che proprio il festival ha finito, negli anni, per farle crescere addosso. Chi conosce bene la Scozia sa che Edimburgo ne è la capitale solo politica, solo di rappresentanza, sa che il cuore è altrove, in angoli molto meno scintillanti e glamour. Ma il suolo che si calpesta per le strade di agosto appartiene a un non-luogo dell’anima, una sorta di Neverland della creatività di cui gli appassionati di arti performative non possono che innamorarsi.
Da diversi anni a questa parte ogni edizione dell’Edinburgh International Festival struttura la programmazione attorno a un tema. Quello del 2011 è il teatro orientale e i suoi rapporti con quello occidentale. Un impatto forte e costante quello dimostrato negli anni dalle culture asiatiche sullo sviluppo dell’identità europea e americana, sotto gli occhi di tutti più che mai ora che i radicati schemi economici e sociali hanno imposto la propria mutevolezza, la propria ansia di rivoluzione. Il pregio del programma 2011 sarà dunque nell’approfondimento anti-culturalista per il quale la felice direzione di Jonathan Mills (in carica fino al 2014) ha già saputo dimostrarsi attenta. Il concerto di apertura – evento chiave ospitato dall’imponente Usher Hall – è affidato a Das Paradies und die Peri di Robert Schumann diretto da Sir Peter Norrington, mentre l’evento clou arriverà già il giorno successivo con una mega-produzione, in prima europea, dell’opera cinese Il Padiglione delle peonie di Tāng Xiǎnzǔ (uno dei più grandi scrittori cinesi di epoca Ming, quindi contemporaneo di Shakespeare), firmata dal Balletto Nazionale Cinese. Gancio offerto, allora, a due capolavori del Bardo, The Tempest, riletto dalla Mokwha Repertory Company di Seoul (adattamento e regia di Tae-Suk Oh) all’incrocio con alcune cronache coreane del V secolo, e Re Lear. Quest’ultimo finisce nelle sapienti mani del grande mattatore di Taipei Wu Hsing-kuo, impegnato qui in un vero one-man tour-de-force in cui, solo in scena, dà vita a tutti i personaggi secondo la tradizione mimica e vocale dell’Opera di Pechino. In queste stesse corde l’adattamento di Amleto proposto dall’Opera di Shanghai con il titolo The revenge of Prince Zi Dan, a partire dalla traduzione di Zhu Sheng-Hao.
A partire dai versi di Voltaire è la Semiramide rossiniana presentata dalla olandese Vlaamse Opera in collaborazione con la Royal Opera Copenhagen, mentre Valery Gergiev e la Mariinsky Opera presentano una produzione diretta da Jonathan Kent, ideata da Paul Brown, dell’opera epica di Richard Strauss Die Frau ohne Schatten (La donna senz’ombra), che collega la vita sulla Terra e nel mondo degli spiriti.
Dal romanzo di Haruki Murakami The Wind-Up Bird Chronicle (tradotto in italiano con L’uccello che girava le viti del mondo) nasce invece lo spettacolo scritto da Greg Pierce e Stephen Earnhart , che ne è anche regista. Di provenienza cinematografica, lo statunitense Earnhart è ora il direttore della Miramax Films e arriva al King’s Theatre di Edimburgo con uno spettacolo che, tramite l’uso di musica, prosa, teatro di figura, danza e filmati, vuole creare un “teatro dei sogni”.
Un progetto titanico è quello su Le mille e una notte, presentato in due parti (6 ore totali) al Royal Lyceum Theatre per la drammaturgia e la regia di Tim Supple, che ha lavorato sulle storie raccolte e adattate dal romanziere libanese Hanan al-Shaykh. Questa prima europea porta in scena cinque diverse traduzioni simultanee e attori e musicisti da Egitto, Tunisia, Siria, Libano, Algeria, Marocco, Francia e Inghilterra.
La danza apre con Drought and Rain, la meditazione sul costo umano delle guerre della coreografa franco-vietnamita Ea Sola, il Re-Triptych del coreografo cinese di stanza a New York Shen Wei; il racconto variopinto di Princess Bari della coreografa coreana Eun-Me Ahn. Lo Scottish Ballet e la Royal Scottish National Orchestra si esibiscono in due lavori molto diversi: il nuovo lavoro (dal titolo, appunto, New Work) del coreografo di origini finlandesi Jorma Elo, attualmente direttore del Balletto di Boston e il più datato Song of the Earth (1965), disegnato dal celebre scozzese Kenneth MacMillian sulle note del ciclo di lieder di Mahler (Das Lied von der Erde), a sua volta ispirato dalla poesia cinese della Dinastia Tang. Infine arriva dall’India il Nrityagram Dance Ensemble, compagnia diretta e coreografata da Surupa Sen, con Sriyah, un collage dei lavori più importanti degli ultimi dieci anni.
Immancabile la serata di chiusura del 4 settembre con il Virgin Money Fireworks Concert, comprendente oltre 100.000 diverse sequenze di fuochi d’artificio lanciati dal Castello di Edimburgo e accompagnato dalla Scottish Chamber Orchestra.
Come al solito, dunque, tutto in pompa magna, come testimoniano le ultime pagine del programma, dedicate ai loghi di tutte le associazioni, pubbliche e private, che hanno spalancato il portafogli a questo grande evento. C’è molta commercialità, forse troppa, e l’Edinburgh International Festival è forse diventato più una cartolina che un vero e proprio evento teatrale. Ma chi ha frequentato almeno una volta l’estate della capitale scozzese sa che il vero viaggio nel teatro lo si fa a bordo della incontenibile e irresistibile giostra dell’Edinburgh Fringe Festival. Delle oltre trecento pagine di programma è davvero impossibile dare conto in un articolo come questo. Si potrebbe consultarle qui, raccolte in un pratico iper-indice per categorie. E in mezzo a dilettanti e filodrammatiche ci si troverebbero i vari Tim Crouch e Dennis Kelly. Tuttavia, chi scrive consiglia vivamente di prendere armi e bagagli e tuffarsi di persona nel fiume in piena del Royal Mile, dove migliaia di artisti danno assaggi del proprio talento, facendo pulsare il cuore del teatro occidentale.
Sergio Lo Gatto