Cosciente dell’impossibilità di incasellare e suddividere accademicamente le differenti modalità di espressione artistica contemporanea e della secondarietà (ma potremmo dire obsolescenza) di una ricerca di eventuali specificità del genere artistico, la trentunesima edizione del festival Drodesera tende coraggiosamente verso l’integrazione dei differenti linguaggi. Arti performative, arti visive e musica live si compenetrano, non come eventi isolati volti a costruire una line up interdisciplinare, ma come espressione di una tendenza/necessità estetica custodita perfettamente nel titolo stesso del festival.
Caracatastrofe. Ovvero quello spazio in cui crisi economica, culturale, sociale, disastri naturali, giovinezze rubate, dolori adolescenziali perdono gravità e, leggeri, si livellano, dinanzi alla necessità di una nuova bellezza, alla ricerca di una dimensione contemplativa. Il rapporto dicotomico che intercorre tra immagine (o bellezza dell’immagine) e sua contemplazione – declinato nelle sue differenti accezioni – può essere utilizzato come filtro attraverso cui analizzare buona parte delle opere presentate al festival. È in questo rapporto che il teatro può perdere le sue specificità di genere artistico, tendere verso dimensioni installative e trovare inconsueti rapporti con le arti visive, con la musica, con il cinema.
Richiede un esercizio di contemplazione Alcune primavere cadono d’inverno, spettacolo presentato dalla compagnia Pathosformel in collaborazione con il gruppo musicale Port-Royal. Su una scena spoglia circondata da ventilatori, un breakdancer si mostra nel suo allenamento quotidiano mentre, al suo fianco, una busta di plastica sospinta dal vento compie piccole e casuali evoluzioni. Accompagnata dalla musica creata dal vivo dai Port-royal – il cui mood trascina verso soffici dimensioni ultraterrene – la scarna immagine creata in scena ferma lo sguardo dello spettatore su una situazione estremamente naturalista che, imprigionata nella scatola teatrale, si rivela in nuove prospettive. Le posizioni assunte dal corpo durante l’allenamento, il riposarsi, il camminare pensante del performer – tutto come nel più remoto angolo di una squallida e silenziosa periferia metropolitana – si elevano sulla scena a leggeri frammenti poetici. Corpo e oggetto, uomo e busta, vivono in questa casualità controllata dall’apparato scenico la propria solitudine, il proprio tenero abbandono ad un vortice di vento, al tempo che tutto trascina.
Dello sgretolarsi di questo stesso tempo, vive Gold, nuova performance dell’artista Francesca Grilli. In uno spazio abbandonato nella penombra, falchi dispiegano le loro enormi ali, accarezzano con le loro piume i corpi degli spettatori, atterrano su cemento e metallo (meravigliosa l’archeologia industriale dello spazio Forgia della Centrale Fies scelto per la performance), mostrano il loro inquietante volto, infine si appoggiano delicati sul braccio della stessa Grilli che, camminando tra il pubblico, intona canzoni caratterizzate da venature politiche (si passa da Com’è profondo il mare di Lucio Dalla a Here’s to you, Nicola and Bart di Joan Baez per arrivare a Gioia e rivoluzione di Afterhours). Se la parola cantata si inserisce in una dimensione alchemica (attuale territorio d’indagine dell’artista) l’immagine decadente offerta allo spettatore, ritratto del crollo di ogni certezza culturale e politica contemporanea, mostra attraverso le sue crepe fasci di luce brillante, il chiaro splendore di una nuova “età dell’oro“, di una rivoluzione a venire.
Questa stessa luce è visibile nella serie fotografica Inside out dell’artista Ron Oliver ospitato all’interno della Temporary Gallery My Personal Crime. Ritratti delle sensazioni e delle ossessioni di giovani teenager, gli scatti di Oliver nascono dalla collaborazione con gli stessi adolescenti, cui l’artista ha chiesto di esprimere le proprie emozioni. In bilico tra le cattive adolescenze ritratte nella filmografia di Gus Van Sant, i colori pop delle pellicole di Sofia Coppola e il silenzio inquietante di certi scatti di Gregory Crewdson, le immagini, anche quando violente, catturano per la loro organizzazione formale, tendono vertiginosamente verso un’inquietante bellezza; eppure sembrano nascondere sullo sfondo un raggio di luce, la speranza in una rivoluzione, la morte di un dolore passeggero di cui ci si è finalmente liberati.
Differente l’immagine ricercata dalla coreografa e danzatrice danese Mette Ingvartsen in Evaporated Landscape. In una coreografia per fumo, schiuma, acqua e bolle di sapone, l’artista ricostruisce ambientazioni naturali ed eventi atmosferici. Fumo bianco accarezza montagne di schiuma improvvisamente sospese nel magma fluido come punte di iceberg, nuvole fluttuano silenziose sul pavimento, si incontrano, scontrano, si tramutano in pioggia. Una dimensione infantile con tinte vintage (tanto nell’utilizzo delle luci e del suono quanto nei materiali) cattura lo sguardo dello spettatore sospendendolo in un’inedita leggerezza.
Raccolti, così, i cocci delle catastrofi contemporanee, gli artisti ospitati dalla trentunesima edizione di Drodesera, sembrano mossi dalla necessità di ricomporli; di recuperare una nuova organicità della visione capace di tendere alla meraviglia, ovvero l’origine del desiderio di conoscenza come ricerca disinteressata (Artistotele, Metafisica). Cadere come piuma sulle catastrofi del mondo, traslare la “decadenza” in “salvezza”, l’arte in utopica rivoluzione, il dolore in armonia, forse, nuova forma di organica bellezza.
Matteo Antonaci
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