Si sono svolte il 3 e il 4 febbraio 2011 le finali della quarta edizione del Premio Equilibrio, atteso appuntamento dedicato alla danza contemporanea italiana. Momento di monitoraggio e cartina di tornasole delle direzioni intraprese dalla ricerca coreografica, il premio offre ad artisti emergenti operanti nel territorio nazionale un contributo per la produzione dello spettacolo visto sotto forma di studio durante le finali, che sarà presentato in forma completa durante il Festival Equilibrio 2012.
Un momento di respiro dunque, per quella ricerca coreografica che, insieme alla sperimentazione teatrale, trova sempre meno ospitalità all’interno degli spazi istituzionali, e ancor meno gode della possibilità di incontrare lo sguardo di un pubblico di non addetto ai lavori.
Eppure l’immagine restituita dalle otto compagnie in scena durante le due serate delle finali è quella di una danza ingessata in certe modalità sceniche degli anni Novanta, mascherate da patine tecnologiche, che, lontane dall’individuare nuove modalità linguistiche, sembrano nascondere un’essenza un po’ vintage talvolta ironica, talvolta estremamente naïf.
In La ruggine dell’oro Aldo Becca, Elena Casadei e Michela Minguzzi analizzano l’interazione fra suono, danza, pittura e proiezione video. Su un pannello elettroacustico che attraverso la conduzione elettrica nei diluenti della pittura permette di modulare segno e suono, Aldo Becca gioca con colori che richiamano l’oro e un suo possibile deterioramento. Proiettate su uno schermo rettangolare, le tracce di colore divengono lo spazio in cui si muove Michela Minguzzi, una piccola prigione liquida, costituita da linee e macchie dorate, metafora di un’idea di manipolazione enunciata in maniera didascalica dai movimenti della danzatrice. Una coreografia che solo raramente si risolve nella sua interazione con lo schermo video e con lo spazio che esso delinea.
Rapporto risolto, invece, in E l’uomo creò se stesso di Leonardo Diana, che, con strizzatina d’occhio alle modalità sceniche del collettivo romano Santasangre – si veda in particolar modo SeiGradi – mette in scena la propria visione dell’evoluzione umana, le cui tappe sono determinate dai diversi linguaggi e dalle diverse espressioni utilizzate dall’uomo nel corso della storia. Dalla pittura al virtuale, fino alla sparizione dello stesso corpo del danzatore. Perfetta costruzione formale e ibridazione di linguaggi, la cui pecca è da ricercarsi nell’eccessiva figuratività e nel rischio costante di cadere nel didascalico.
Si costruisce nei confini che separano i differenti organi percettivi Hush, hear me di Massimiliano Barachini, Elena Giannotti e Jacopo Jenna. I tre danzatori eseguono dei movimenti rapidi e ipnotici, percorrono più volte lo spazio scenico accompagnati da una musica assordante e dal cambiare repentino delle luci che acceca gli spettatori o nasconde i corpi. Frammenti percettivi intorno ai quali esercitare la propria immaginazione in una coreografia che avvolge i sensi dello spettatore, ma che, nella sua reiterazione continua e nella sua incapacità di risolvere l’impianto teorico in un’evoluzione scenica, finisce inevitabilmente per respingerlo.
Più lontani dall’immaginario high-tech i lavori di Marta Bevilacqua, Davide Manico e Daniele Ninarello. Se i primi due costruiscono degli spettacoli ironici, consapevolmente kitsch, con Occhi Neri Capelli Blu Ninarello si ispira all’opera di Marguerite Duras e riflette sul tema dell’amore come perdizione, attaccamento e volontà di controllo. Attrazione e repulsione si plasmano sul suono modulato dal vivo tramite i movimenti della danzatrice Elisa Dal Corso. La coreografia, che in alcuni movimenti ricorda Namoro del gruppo nanou, perde spessore nel suo caricarsi di sovrastrutture teoriche non risolte nella prassi, di una sovrabbondanza di segni scenici abbandonati come elementi a se stanti e, almeno in questa fase di studio, incapaci di rendere organico il lavoro.
Infine, rifiutando completamente l’utilizzo di sovrastrutture tecnologiche e di complessi apparati linguistici e giocando sull’auto-rappresentazione e sul rapporto pubblico/privato, vincono ex-aequo la quarta edizione del Premio Equilibrio Will di Martina La Ragione e Valentina Buldrini e parkin’son di Giulio D’Anna. Se lo studio presentato da La Ragione e Buldrini si basa sull’esposizione del proprio sentire corporeo, dei propri istinti e dei margini di errore custoditi nel corpo, cercando la bellezza anche nell’alterazione della sua convenzionale struttura, Giulio D’Anna, sulla scia di Virgilio Sieni, concentrandosi su aspetti più emotivi e lirici, si confronta con il suo vero padre. L’intimità del rapporto si articola in scena attraverso una danza/lotta costituita da una forte interazione carnale. Il coreografo distrugge i tabù della relazione padre/figlio, sviscera violentemente i temi della malattia, della morte, e fa dei limiti del corpo paterno, con i suoi cenni di vecchiaia e i segni della vita trascorsa, i limiti dello spettacolo stesso.
Matteo Antonaci
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