Comincia dalla fine, questo Inequilibrio.10 fuori stagione perché gli hanno cambiato di posto, da luglio a novembre, e l’hanno rintanato in una buca inoffensiva di silenzio – qualcuno crede – nel mondo delle presunte arti che invece urla sguaiato l’indegnità al mandato; fuori tempo, stagione è questo incontro che “sembra di stare a Natale” dice qualcuno, il festival degli abbracci di amici, parenti, sodali di una missione vituperata e spogliata di devozione, fuori stagione per il clima freddo e piovoso che non è quello solito di una passeggiata dal Castello Pasquini fino al mare, con solo un po’di libeccio, piano, la sera, fuori stagione perché il teatro visto qui, oggi come negli anni passati, è davvero di un altro tempo, di un altro incanto alla verità.
L’auto lasciata in un parcheggio libero da altre auto, dalle strisce blu, dalla pioggia che ci ha battuto il vetro per tutto il viaggio, e siamo in sala per Korekanè, di corsa, per i due frammenti del progetto CREPA, ancora in forma di studio. L’interesse è vivo perché da giorni ci hanno chiesto un confronto, ecco qualcuno che ha capito, mi dissi leggendo il loro messaggio, che il senso di tutto è proprio questo: l’anima del nostro e loro lavoro non è soltanto nell’arte espressa ma in quel che all’arte soggiace e quel che ne esplode quando tutto si posa. Lo spettacolo ha in principio un’anima concettuale, una connotazione che sembra evasiva ma non lo è: cerchi concentrici di un percorso definito, un cammino vorticoso e reiterato che prepara il campo dove avverrà lo scontro, la frattura, la crepa appunto; la seconda parte-studio-frammento innesta una dimensione onirica, cui credo manchi ancora una fluidità di passaggio che lo renda meno distraente, completo. La frattura si sconta nella memoria: frasi e tacche per ricordare, cancellate, confuse, spostano il segno dello spettacolo (ma anche l’idea che ne avevano) in una nebbia non più distinta. Ma saranno proprio le macerie di memoria a rifondarne il senso. L’intero tuttavia non mi sembra portato a fondo, la drammaturgia non così carica di senso concreto, il tema merita un’indagine in cui il grafico dei vuoti e dei pieni non sia di curve ma di punte, per non cadere nel rischio che il segno resti diluito e poco distinto. Alma di Sosta Palmizi è uno spettacolo di teatro danza e di poesia, che forse son la stessa cosa; Giorgio Rossi in scena è sapiente e lascia al movimento e la suggestione dei versi di agire soli, senza che lui se ne faccia portatore troppo evidente: l’estetica matura è fatta di piccoli significativi accenti, vibrazioni di diverso segno – positivo e negativo – che moltiplicati si fanno complementari. Se qualcosa non mi convince è nei segni di interpunzione che confondono nella comprensione della frase intera, ma ci sono scelte di grande efficacia polisemica, emozionale e insieme intellettuale, come il libro sulla bocca – poesia che parla sola – o il volo degli stessi versi per ali di libro, con in cui tutto conclude.
Dire di Maurizio Lupinelli, adesso, non è facile. Nerval Teatro presenta Appassionatamente, progetto sulla drammaturgia di Werner Schwab. Fin qui uno spettacolo come potrebbero essere tanti. Si aggiunge che il progetto è prodotto qui da Armunia e lavora con la disabilità, ma ormai questo non sconvolge più, si fa da tempo. Tutto sarebbe normale, se non fosse che siamo qui per il teatro, e quanto questo lavoro lo è: l’eleganza di Lupinelli regista mi strema e mi commuove, la sobrietà delle scelte è come toccare un tessuto di qualità, passare la mano a sentire il verso della stoffa e dirsi che sì, non c’è dubbio, la pienezza della materia e della tinta fa una stola per abiti regali; la luce è di una qualità impenetrabile, penombra densa, la pulizia delle sfumature e il dosaggio del tocco non tradiscono l’onestà di una scelta nuda che è espositiva e non espressiva, in una struttura decisamente solida che lascia sviluppare una forte carica figurale tendente alla pittura barocca più sontuosa e intensa, che si fa manto dei punti luce. Della disabilità in scena non fa uso, Lupinelli, come facilmente verrebbe di fare, ma si serve delle qualità d’attore di cui dispone (forse servendosene con una direzione che lascia le briglie troppo dure), della persona che c’è dentro l’attore, o viceversa, evitando che la disabilità ne sia rappresentanza. E poi il finale, che ha soltanto il suo nome: tutti fuori, entra in scena un attore fuori categoria: di nero vestito, bianco in viso, capelli grigi sciolti sulle spalle, il grido di dentro, Lupo è davvero un lupo, il ringhio che azzanna da lontano, l’anima di un urlo che mi penetra i pori della pelle, mi buca dove vuole, mi raggiunge dovunque m’ero andato a rintanare. Sull’ultima luce mi scopro con la mia mano sulla pancia del collega che ho di fianco, a dire: vedi come si può ancora colpire? Affido a questa immagine la fine del suo spettacolo, la fine di un articolo, la fine del mio dire questo festival in cui, appena arrivato, ho chiesto: dov’è Paganelli? È in ufficio, a parlare con Andrea Nanni. Ecco, ora ho capito: la fine, è soltanto l’inizio.
Simone Nebbia
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