La solitudine della violenza. Triste è la solitudine di un clown, perché a ridere sono gli altri. È questo a farli cattivi. Perché il loro ridere è espressione della più pura cattiveria, la loro vitalità si nutre dei sentimenti forti – il godimento e la paura – che si generano all’ascolto, davanti alla più truce e pure quieta, in apparenza, clownerie. Violenza repressa e manifesta, in simbiosi perfetta sul palco e dentro gli spettatori, è in questo datato e ancora bello Hula Doll, follia distruttiva dei Tony Clifton Circus.
La genialità passa anche per il titolo, che non è propriamente quello che ho appena scritto: il loro è un ritorno, Il ritorno di Hula Doll, ma non è un seguito, è proprio il ritorno di quello spettacolo già fatto. E in questa genialità sta il motivo per vederlo, questo spettacolo che si porta la furia affinata negli anni – e quindi funzionale e fondante ai loro obiettivi distruttivi della convenzione, distruttivi anche dell’anticonvenzionalità – e insieme si porta la stanchezza che si vede sul loro sguardo, stufi di questo spettacolo che conoscono a memoria, stufi di essere clown, stufi di sé e della sorpresa che devono, ogni volta, generare. È l’unico modo che ho, oggi a distanza di dieci anni dal debutto di Hula Doll, per dire quanto sia nobile e sincero il loro stare in scena e discutersi fino a contraddirsi.
Il loro obiettivo iniziale era l’azione (di Nicola Danesi de Luca e Iacopo Fulgi) come forma pura del teatro, era la partitura di gesti e musica (la cui drammaturgia a contrasto è di Enzo Palazzoni), lo stimolo come detonatore di cattiveria espressa; mentre invece l’obiettivo attuale è dunque andare oltre, scardinare la propria intima condiscendenza a quel che hanno fatto, quel che hanno ormai come scontato in tanti anni di palcoscenico, sconfiggersi viene da dire, trovarsi annidati e impolverati e tornare, nuovamente, a mettersi in discussione. Lo sanno bene, che questo spettacolo avrebbe bisogno di una cattiveria che non sentono più negli stessi termini di un tempo, ma se ne fanno una forza e sputano lo sfiato della loro disapprovazione a sé stessi. Maniera? Chissà, forse, forse un tentativo di salvare una mancanza di idee, ma quel che conta è la loro presa di coscienza che è l’unica via capace di illuminare gli artisti persi dentro il loro gioco a rincorrersi, troppo spesso, come capita ai gatti quando un monello invasivo gli appende una molletta sul pelo della coda. Irrimediabilmente girando su loro stessi. Quindi, per dirla in un modo che a loro piacerebbe: anche questa sera, a teatro, non è successo nulla.
Visto il 20 ottobre 2010
Teatro Gobetti (Torino)
Prospettiva 2010 [vai al programma]
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