Questa recensione fa parte di Cordelia di aprile 25
Scritta nel 1677, Fedra di Jean Racine è la tragedia del desiderio impossibile, della nefandezza dell’inconscio, dove la sintassi si fa sempre più inquieta, intrisa di colpa e vergogna. Nello sviscerare la passione erotica di una donna non corrisposta, Racine guarda però alla radice classica, a Euripide e a Seneca, anche se la sua è una tragedia tutta interiore, di cui Federico Tiezzi – con la traduzione di Giovanni Raboni – decide di intercettare e dilatare l’eco psicoanalitico, da Freud a Lacan: si tratta di «un testo di confessioni, ogni personaggio confida a un altro qualcosa che non può esser detto». La scena, cofirmata dallo stesso regista, ricostruisce questa complessa e tortuosa architettura mentale e “confessionale” assumendo un carattere metafisico, sia dominato dal nero abissale che i personaggi abitano sia solcato da tagli di luce fredda, talvolta interrotti da atmosfere magenta che pulsano sanguinose nel dramma. Anche il contrasto tra la radice mitica della vicenda e l’estetica contemporanea – con busti grechi e un quadro di Guido Reni sullo sfondo minimalista – produce un’astrazione segnica conturbante, di straniamento e caos. Di questo linguaggio scenico pulsante, non intravediamo tuttavia un coerente corrispettivo interpretativo, che sia in grado di restituire quella densità letteraria raciniana: come già accaduto nell’ Antigone, i personaggi non modulano complessivamente le sfumature del tragico. Fedra, nella febbrile performance di Elena Ghiaurov, sprigiona fin dal principio solo l’acume del climax tragico, inghiottendo di acuti tutta la scena, mentre l’inquieto Ippolito e la torva Enone, o lo ieratico Teseo, cercano di controbilanciarne l’intensità con un pathos più distaccato, che riesce ad essere esclusivamente cornice marginale rispetto alla tragicità della figura femminile e non ciò che invece la informa. Dilaniato dall’amore impossibile per il figliastro Ippolito, il corpo della donna grida come simbolo di una colpa viscerale che la porterà alla morte. Qui la tragedia collassa nel nero monotono del personaggio, lasciando irrisolto il significato della parola incarnata, tra suono, senso e sua necessaria trasmissione. (Andrea Gardenghi)
Visto al Piccolo Teatro Strehler di Milano. Crediti: di Jean Racine, traduzione Giovanni Raboni, regia Federico Tiezzi, con Catherine Bertoni de Laet, Martino D’Amico, Valentina Elia, Elena Ghiaurov, Riccardo Livermore, Bruna Rossi, Massimo Verdastro, scena Franco Raggi, Gregorio Zurla e Federico Tiezzi, costumi Giovanna Buzzi, luci Gianni Pollini, canto Francesca Della Monica, movimenti coreografici Cristiana Morganti, regista assistente Giovanni Scandella, costumista assistente Lisa Rufini, scenografa assistente Erika Baffico, produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatri di Pistoia Centro di Produzione Teatrale, Compagnia Lombardi-Tiezzi