Questa recensione fa parte di Cordelia di aprile 25
È una mattina del marzo 1759, in Inghilterra, quando la levatrice Elizabeth Luke, intenta a lavare i panni, viene distolta dalla sua mansione per recarsi in tribunale, insieme ad altre undici matrone, a giudicare un caso di estrema importanza: Sally Poppy è stata accusata dell’omicidio di una ragazzina, ma, dichiarando di essere incinta, sembrerebbe nella posizione di scampare alla forca, diversamente dal suo compagno. Il consiglio di matrone sarà nella posizione di decidere se Sally stia raccontando la verità o meno. È sulla base di queste premesse che ha inizio L’Empireo (The Welkin) di Lucy Kirkwood, su traduzione di Monica Capuani e Francesco Bianchi, per la regia di Serena Sinigaglia. Le donne sono già tutte presenti in scena dall’inizio dello spettacolo, disposte in corrispondenza di sedie color pece, sotto un cono di luce fredda che tanto ricorda la stanza dell’interrogatorio. Le azioni sono evocate, ed è lasciata prettamente all’immaginazione dello spettatore la possibilità di colmare quanto manca sulla scena essenziale, dove sono i fatti a parlare nella loro densità. Assume inizialmente le forme di una lettura teatrale corale dove le donne, fogli alla mano, leggono le proprie battute, salvo poi abbandonare gradualmente i copioni. L’effettivo stato di gravidanza di Sally viene comprovato, ma le donne raggiungono un accordo solo quando è confermato da un dottore. L’autorità della levatrice, il suo sapere pratico e innato, la sua stessa parola, viene così messa in discussione dalla scienza: la conoscenza del corpo femminile e dei meccanismi che lo animano viene sottratta dall’area di competenza delle stesse portatrici, che vengono così spodestate dal loro ruolo di donne e madri. Sally sembrerebbe salva dalla forca, ma la ragazza perde il bambino. E così, mentre guarda atterrita il mare di gente al di sotto delle aule del tribunale che invoca la sua morte, viene risparmiata da Elizabeth che, dolcemente, come una madre che culla un bambino per farlo addormentare, stringe un cappio intorno al suo collo. È nella pietà di una madre che si trova compassione e, a volte, una possibilità di salvezza. (Letizia Chiarlone)
Visto al Teatro Gustavo Modena Produzione Teatro Nazionale di Genova, Teatro Carcano, Teatro Stabile di Bolzano, LAC – Lugano Arte Cultura, Teatro Bellini di Napoli Traduzione Monica Capuani e Francesco Bianchi Dramaturg Monica Capuani RegiaSerena Sinigaglia Interpreti Giulia Agosta, Alvise Camozzi, Matilde Facheris, Viola Marietti, Francesca Muscatello, Marika Pensa, Valeria Perdonò, Maria Pilar Pérez Aspa, Arianna Scommegna, Chiara Stoppa, Anahì Traversi, Arianna Verzeletti, Virginia Zini, Sandra Zoccolan Consulenza allo spazio scenico aria Spazzi Costumi Martina Ciccarelli Disegno luci Christian LaFace Sound design Sandra Zoccolan Assistente alla regia Michele Iuculano Consulenza canora Francesca Della Monica Consulenza movimento Riccardo Micheletti