Claudio Meldolesi sostiene che i teatranti si riconoscono nei teatranti. Nel tempo lungo, anche a distanza di decenni. È «la grande corrente sottostante del professionismo attorico» scrive, per cui vedo i tuoi gesti nei miei, la mia fatica nella tua. Soffriamo la stessa umidità del camerino, e abbiamo nelle tasche la stessa miseria, mischiata com’è – per me quanto per te – alla voglia di recita. Forse stavolta è capitato a Mimmo Borrelli.

Mimmo Borrelli è un uomo fragile. L’autore al quale Franco Quadri dedica i suoi ultimi sforzi, che Renato Palazzi ritiene il più significativo d’inizio millennio, che fa incetta di premi e che se parla, quando parla, di drammaturgia in un convegno o un incontro suda, si sbraccia, piega la sedia a forza di schienate mentre provoca intanto l’esistenza a mezz’aria dei Campi Flegrei facendo coincidere un paese ad un suono e un suono ad un volto in realtà è un uomo fragile, pieno di cicatrici quant’una corteccia è piena di tagli o di morsi. È fragile nonostante in questi anni abbia sventrato il foyer e la platea del San Ferdinando, diviso in due la sala maggiore del Bellini e reso lo scolo d’appestati d’una chiesa il retro d’uno spettacolo che aveva per scene mura prive di fede e un altare a cui è stata tolta la croce; è fragile nonostante abbia mutato un lago in un mare e un parcheggio in un campo di memorie calcistiche, nonostante abbia portato il pubblico sulla spiaggia di Torregaveta, in attesa che la battigia dicesse «‘nzomma» al sorgere effettivo del sole: noi con gli occhi di sonno, i baveri alzati, il petto al caldo tra gli avambracci e le facce celesti come in un quadro di Klimt perché la notte scolora; lui che muove gli elementi perché davvero un attore sia spinto dall’onda. Certo, dal 2006 (‘Nzularchia) domina l’altro Borrelli, barba lunga, voce tonante, che monta ‘A Sciaveca per vendicarsi, ne La Madre parla dal buio incarnando i guasti della tragedia e in Napucalisse è il Vesuvio che erutta; l’Efesto che insulta «Pateterno» e «Pataturche», l’Avierzeco-diavolo affacciato sui cadaveri di Opera pezzentella, ‘Nzamamorte che ne La cupa sorge da un masso, l’essere che rotea bastoni come sciabole, che si batte come un tamburo e fa parlare maestrale e bonaccia. Eppure questo è in origine un uomo fragile, che piange mani sulla testa, corpo alla parete, se allieve e allievi della Factory del Bellini gli riaprono una crepa che ha messo in un verso, e allora ti guarda come un bambino cui hanno tolto il pallone, o che incontri sugli scalini esterni d’un palazzo, cellulare in mano, mentre spera che qualcuno che conosce passi per non andare da solo a una di quelle cene da festival, cui si sente inadatto. Le carezze date in prova dopo aver bestemmiato; il modo in cui una sera s’allontana, piegato non dalla replica ma come da una sconfitta; il tono che gli buca la voce quand’inizia a commuoversi. Ma quest’essere, fatto di voragini biografiche e di solitudini avvertite nel frastuono, che per scrivere torna al tavolo di casa dei suoi e stringe una penna, finora è rimasto nel fondo dei suoi stessi spettacoli, invisibile come le radici. Che Il gelo ha strappato al terreno e reso evidenti per un’ora.

Sul palco un tappeto, una scrivania sghemba e dallo stile contemporaneo (è il rifiuto dichiarato di ogni ricostruzione museale) e una sedia; tagli di luce, nebbia, due tessuti che sostituiscono la profondità degli spettacoli precedenti (il cunicolo de La Madre, la navata di Opera pezzentella, i binari de La cupa) con una verticalità che schiaccia l’autore allo scrittoio e permette alla voce d’alzarsi e diffondersi. Nelle orecchie un gocciolio, sul tavolo un quaderno che diventa come il buco d’un formicaio: quel che esce stasera viene da lì. Borrelli veste di nero: pantalone, zucchetto simil-kippah, una camicia talare a quattro bottoni. Sembra l’officiante d’una messa che fa del teatro uno spazio di presenze. Sul piano testuale monta diciannove frammenti, sedici di Eduardo (le poesie ‘A lampa, ‘Nfunno, Te sistieme, Si t’ ‘o sapesse dicere, E nummere, ‘O zi nisciuno, E allora bevo, Io vulesse truvà pace; un brano de Il sindaco del rione Sanità; i poemi Padre Cicogna, De Pretore Vincenzo e Baccalà, l’audio dell’ultimo discorso a Taormina, una sequenza di frasi da più drammaturgie e in apertura e chiusura Calibano e Prospero de La tempesta) cui aggiunge tre pezzi suoi: Il ggelo, Ginoro, Che fine farò. Sul piano attoriale entra, siede, s’impianta, china il capo, lo rialza, prorompe. Come capita al tavolo della madre e del padre quando, scritti i versi, li dice uno a uno in salotto, rima per rima, tenendo il corpo nel verbo. Ascoltiamo e vediamo le sopracciglia curve e gli occhi-fessura, ad esempio, che calcano i lamenti del mezz’uomo e mezza bestia di Shakespeare, «Bano bano, s’ha truvato/ nu patrone affezionato/ Cali, ca, Calibbano!», assieme al dondolio della testa, alla pancia che si gonfia e si sgonfia e al piede sinistro, con cui si dà ritmo. Il ggelo detto a mani congiunte, la frase «artrite finanche ‘nt ‘i chiocche» rafforzata con la voce e i quindici tocchi alla tempia quando afferma «nun me faccio capace». Il coltello teso e ritirato all’«o io o Gioacchino» per raccontare l’ossessione omicida di Barracano ne Il sindaco; il petto piegato alla tavola durante ‘Nfunno («Vulesse cammenà pe’ sottoterra, strisciando cumm’ ‘a vverme, int’ ‘o turreno»); i cadaveri a spalla, come sostenesse una bara, e il viso a palpebre chiuse e mascella crollata perché le pupille spariscano e la bocca sia una caverna senz’alito in ‘A lampa. I diciotto segni della croce di Padre Cicogna, la bottiglia alla guancia, al mento e alle labbra (è uno sfiorarsi erotico, una dipendenza epidermica) di E allora bevo, la frase «’nzerra chella porta» detta chiudendo le gambe perché, tornando a Padre Cicogna, ci sia un divieto generativo: qui figli non ne devono nascere più. De Pretore Vincenzo che diventa una scarpetteria – tra rivoltelle, toni neomelodici, un Dio con occhiali da sole – Baccalà, lungo due metri e cinquanta, le mani-paletta appese a braccia che sono due fili, la testa una bomba – «quant’è brutto», «è ‘nu scuorno» – di cui fissa il corpo dopo che l’uomo, dimenticato dalla gente, si è suicidato: il collo storto dal cappio, le dita dei piedi raggrinzite, le mani (la sinistra dietro la schiena, la destra in avanti) contorte quanto i rami d’un albero seccato dall’inverno.

Prima traccia, coerente con una poetica. Borrelli di Eduardo convoca i cadaveri confermando la scelta che gli è solita di far tornare le anime dall’aldilà: cariche di rabbia o dolore, legate da storie senza giustizia, con la faccia impallidita di biacca e la polvere che gli sporca le vesti e che non è altro che la cenere cui siamo destinati anche noi. E, tra i cadaveri, sceglie i più miseri. Calibano schiavizzato da Prospero, Vincenzo De Pretore che ruba per vivere, zi’ Nisciuno, che non tiene una lira, Emanuele Palumbo e sua moglie che stanno «a Supportico Lopez» in due stanze e una cucina buona per una padella e una pentola, Gennarino Baccalà che campa con una fetta di parmigiana e due caramelle. Valgono niente e cioè quanto valgono Franchettone, Maria Delle Papere, Ciro Capalonga, Sasà Marunniello, Spennacore, Gaetano, Piccerì, Pascale, Totore, Settecape, Pacchione o Tunino ‘o Barbone di La cupa, Opera pezzentella, La Madre, ‘A Sciaveca o ‘Nzularchia. Che, rimpiombati tra noi, s’agitano in scena perché la durata che gli offre il teatro è l’ultima possibilità che hanno di tornare a colpire o redimersi, mostrando un taglio alla gola, i capelli strappati, il sangue che cola dalla vagina e la maniera in cui fui accecata o violata, il modo in cui sono impazzito o sono stato ingannato, com’ero quand’ero o come stavano i fatti, prima che l’applauso rispedisca tutti e tutte indietro per sempre. «’Nzomma», hai visto come fu? Almeno ti prego tienilo a mente.

Ma è la seconda traccia che è inedita perché nel contempo Borrelli, con Il gelo, apre la porta e si lascia vedere intento alle carte, lo stomaco vuoto, nell’istante in cui compone o ha composto. Il teatrante dunque dice di sé e tuttavia non per mettersi in mostra ma per darsi un sostegno, trovare una corrispondenza o un conforto. Come Giorgio Strehler che in una notte di giugno del 1986 scrive a Louis Jouvet per dirgli Maestro «solo oggi sono riuscito a capire finalmente quello che volevate, dicendomi una sera, a un tavolino anonimo e per me indimenticabile, che gli attori non hanno vocazione e che se viene, viene dopo, alla fine», asciugate le lacrime, affrontati gli spettri, superati i malanni. O come se la fatica di Eduardo ora motivasse in qualche modo la sua. Così lo legge e nel leggerlo legge se stesso al punto da poter dire se stesso attraverso le cose che ha scritto. «Diretto’», dice Borrelli dunque chiamandolo come un tempo lo chiamava chi stava o recitava con lui, affinché sappia che nelle «notti di genio e stesura» del Maestro egli vede in qualche modo le proprie: gli stessi tormenti, lo stesso umidore, la stessa «mancanza di idee» di cui talvolta in un articolo o un’intervista ha parlato anche Eduardo. Lo stare curvo per andare «cchiù sotto» del foglio, tra le macerie o le viscere, a cercare «corpi di storie» da evocare «coi polsi e le nocche», salvo tornarsene senza stringere niente nel pugno. Sentire che gli occhi bruciano, la schiena fa male e il sonno è passato, alzarsi, fare «nu cafè» ed essere colti dall’altra faccia di questo mestiere: che «ce stanno ‘i turni», i «riebbete», i «cascè da pagare» e «forse è meglio ca’ cagno repertorio», chissà, ma che fare, che scrivere? Lui, Borrelli, che da quando ha iniziato cerca i suoi morti non per dire il dolore ma «’o dolore e nu’ dolore». Ci pensa, s’agita allo scrittoio, si trova davanti Te sistieme, Si t’ ‘o sapesse dicere, E nummere con cui Eduardo ride o si commuove pensando a sua moglie e a Borrelli forse viene in mente la propria famiglia. «Si putesse dicere chello c’ ‘o core dice, quanto sarrìa felice si t’ ‘o sapesse dì» ma «’o core sape scrivere?». Si passa quindi una mano sulla fronte lentamente e a me sembra che ora stia calcolando il tempo dedicato al teatro rispetto al tempo tolto ai suoi cari. D’altronde non lo ha detto anche Eduardo? L’assenza da casa, o i figli cresciuti lontano, mentre recitava sul palco la parte del padre. Luca che si è fatto da solo, Luisella morta in albergo mentre lui stava tra il primo e il secondo tempo di una commedia. E allora bevo come a dire «questa è la scelta», niente da fare, eppure quanta dedizione, quanta fede esercitata a vacante. Rivendicando la propria lingua come fa Calibano con Prospero, con la stessa arraggia di Barracano, pregando il Teatro quanto Vincenzo prega San Giuseppe ogni giorno: non tocca dunque pure a lui, come a De Pretore, il Paradiso? Invece sta qua Borrelli, lontani gli applausi, i premi, i compimenti, gli articoli, con addosso «chella frustrazione r’ ‘u fallimento» che deve aver provato anche Eduardo. Cui invia un ultimo testo, una sorta di lettera intitolata Che fine farò per dirgli che ha paura di perdere quel che gli sembrava di aver conquistato, che il suo scrivere non interessi a nessuno o di essere rimosso come Baccalà, che prima lo cinge la folla e poi non lo riconoscono più, «pover’ommo… chi è?». Borrelli qui quasi piange, che importa se per vero o per finta, ci dice che teme di diventare un «barbone puteolante», chiama la madre ed il padre e sussurra loro «reggete» dicendogli «perdono» in realtà perché, oltre al teatro, io «altro non so fare» dice. Poi, finiti gli incantesimi, chiude il quaderno ed esce di scena. Buio, nel buio un taglio freddo da destra e la voce di Eduardo a Taormina: «È stata tutta una vita di sacrifici e di gelo. Così si fa il teatro, così ho fatto. Ma il cuore ha tremato sempre, tutte le sere, e l’ho pagato».
Voce rotta, lente nera. Fragile chissà quanto anche lui.
Alessandro Toppi
Teatro Piccolo Bellini – Napoli, marzo 2025
IL GELO
da Eduardo De Filippo
con Mimmo Borrelli
musiche a cura di Antonio Della Ragione
luci e spazio scenico Salvatore Palladino
produzione Fondazione Teatro di Napoli-Teatro Bellini