A Parma un convegno e uno spettacolo (L’avventuriero con la regia di Giacomo Giuntini) per scoprire Aphra Ben, traduttrice, scrittrice, drammaturga britannica seicentesca.

Probabilmente spia per conto del Re d’Inghilterra, propagandista politica, traduttrice di opere scientifiche e scrittrice raffinata e schietta, giovane vedova mai risposata e fluida amante. Soprattutto, Aphra Behn, nome d’arte Astrea, fu quella che possiamo a pieno titolo identificare come prima autrice professionista della letteratura inglese con un corpus, composto tra il 1671 e il 1689, di oltre quaranta opere tra commedie, tragedie, romanzi, poesie che la attesta tra le autrici più rinomate del suo tempo. Il Teatro Due di Parma le ha dedicato, nel mese di marzo, un corposo focus dal titolo L’imperatrice della luna, a partire dalla nuova produzione L’avventuriero, per la regia di Giacomo Giuntini, la traduzione di Luca Scarlini e con le attrici e gli attori del Teatro Due.
L’opera di Behn si inserisce nel contesto di un teatro inglese restaurato che, dopo vent’anni di chiusura dei luoghi di spettacolo e di guerra civile, inaugura nuovi stili scenici, recitativi e drammaturgici anche in virtù della presenza in scena delle donne, finalmente abilitate alla recitazione in pubblico, pur recuperando e rielaborando modelli e stilemi preesistenti per sopperire all’iniziale carenza di repertorio. Dal teatro elisabettiano, ovviamente, ma anche dal teatro d’ispirazione spagnola, francese e italiana. Il proscenio si spinge verso la platea di selezionati spettatori che gravitano attorno alla corte; lo spazio scenico rinuncia alla molteplicità di piani e all’essenzialità per appiattirsi sulle scene dipinte e su un impianto già prettamente barocco che predilige l’artificio e la rappresentazione visiva piuttosto che verbale.

Autrice schietta prima acclamata dal pubblico, poi censurata dalla critica con l’accusa di oscenità e presto caduta nell’oblio, Behn viene riscoperta troppo tardi, nel Novecento, ovviamente dal mondo femminista. In particolare, da Vita Sackville-West, prima a ricostruirne la biografia nel 1927, e da Virginia Woolf, che le dedica un capitolo de Una stanza tutta per sé. Entrambe, tuttavia, si dedicano alla vita di Behn e al suo ruolo di prima scrittrice professionista, mentre tralasciano di analizzare le sue opere, declassate, da West, a testi di scarso interesse letterario.
Una vita rocambolesca che si muove tra leggenda e fonti storiche è, del resto, il tema su cui si è concentrato il convegno internazionale Aphra Behn tra pagina e teatro, a cura di Teatro Due e Università di Parma, tra cui gli appassionati e appassionanti interventi delle due massime esperte della scrittrice inglese, le autrici, ricercatrici e docenti Janett Todd (Università di Cambridge – Lucy Cavendish College) ed Elaine Hobby (Loughborough University). I due giorni di convegno hanno tentato non soltanto di ripercorrere la biografia di Behn, bensì di restituire un inquadramento del contesto politico, sociale, letterario e teatrale dell’epoca, con le relazioni del professor Diego Saglia e delle prof.sse Rose Ballaster, Francesca Saggini, Maria Chiara Barbieri e della saggista e critica letteraria Liliana Rampello. Con l’intervento di Masolino D’Amico, dove nuovamente l’opera di Behn è giudicata commerciale e debitrice di testi e modelli precedenti, si preferisce concentrarsi sul poeta John Wilmot, Conte di Rochester e appartenente alla schiera di nobili fedeli al re Carlo II. Noto libertino, infedele marito di una giovane Elizabeth Malet (che egli stesso rapì e violentò poiché risultasse “inservibile” al matrimonio combinato con altri partiti), grazie alle cui finanze trascorse il poco che restava dei suoi trentatré anni dilettandosi nella scrittura di poesie di stampo satirico e osceno, commedie e tragedie, in competizione con gli amici della corte.

Intervento che il relatore non si sforza particolarmente di contestualizzare in relazione ai temi del convegno, ma che, da osservatori, ci riporta, finalmente, a capofitto nel merito e nel contenuto dell’opera di Behn. La presentazione del Conte di Rochester, infatti, corrisponde a quella di The rover, l’avventuriero che Behn mette in scena nell’omonima commedia. Esiliato poiché fedele al re, libertino dedito alla conquista e al piacere, volgarmente un “ruba cuori”, collezionista di “bravate”. Un alquanto ovvio Don Giovanni che, tuttavia, Behn decide di non punire o, meglio, di non far punire dalle protagoniste della commedia. Bensì l’avventuriero sembra ottenere esattamente ciò che desidera, in un gioco delle parti dove, comunque, la componente maschile non può che avere la meglio.
Del testo de L’avventuriero, probabilmente più riuscita e acclamata commedia della drammaturga, se ne occupano con dovizia Giacomo Giuntini e Luca Scarlini con una nuova traduzione di The Rover, qui tradotto con L’avventuriero, che intende, da una parte, dichiararsi fedele al testo originale (per quanto riguarda, ad esempio la scansione, associata ai ruoli, di versi e prosa), lasciando che si esprima una sintassi portatrice di un mondo metaforico complesso; dall’altra ripulire il testo dalle incrostazioni delle rare precedenti traduzioni.
Behn elegge le donne e, in parte, un complesso universo di solidarietà femminile, a protagoniste assolute del plot, e le spinge nel tentativo ostinato e sovversivo di conquistarsi le stesse libertà garantite agli uomini, di essere dedite innanzitutto al proprio piacere e al proprio desiderio, sia esso la ricerca di una vita sessuale di tipo libertino o un matrimonio per amore. Mostra chiaramente, il testo di Behn, il tentativo femminile di divincolarsi dalla volontà paterna e maschile in senso lato, sì, ma anche la difficoltà di questo distacco e l’ingannevolezza delle dinamiche della relazione uomo – donna.

L’intenzione del testo è confermata dall’interpretazione registica che ne dà Giuntini, che elegge Behn a “buona compagna di viaggio” in un momento storico in cui persino quelle che consideravamo certezze e conquiste conquistate nel senso della parità di genere e dell’equità, vengono rimesse radicalmente in discussione da parole, azioni, numeri.
Nel mettere in scena la pièce, Giuntini sceglie un impianto fondato sulla simultaneità di scene e azioni e sulla pluralità dei piani, recuperando la dimensione verticale grazie a un ponte che ricorda il balcone elisabettiano. In uno spazio teatrale spoglio e rivisitato in cui il pubblico occupa i quattro angoli della sala, diciotto attori in una formazione affiatata e di grande equilibrio, abitano incessantemente la totalità della scena. Il movimento incessante degli attori anima il testo con inseguimenti, fughe, richiami. Le quattro platee osservano l’azione da quattro prospettive vicine ma differenti, e la loro attenzione è spesso catturata dall’interazione diretta con gli attori, così come da scene “di contorno” che affidano alle movenze la creazione continua del contesto nella quasi totale assenza di elementi e oggetti di scena e che garantiscono anche ai ruoli minori di emergere e dichiararsi nella loro complessità.
L’opera di Behn prende a prestito gli stili della commedia spagnola e si ambienta a Napoli durante il Carnevale. Questo – che in scena si esprime pienamente negli splendidi costumi realizzati da Andrea Sorrentino tra fedeltà al contesto storico ed elementi di geometrico e astratto colore – diviene il principale espediente drammaturgico che guida, maschera e confonde le relazioni e i ruoli tra i personaggi, in un costante gioco di scambi e fraintendimenti. E le relazioni sono, senz’altro, il punto focale su cui la regia si concentra per accompagnarci nel groviglio di amori, passioni, inganni in cui la vicenda si snoda, affidandosi a un meticoloso lavoro di regia d’attore, a una puntuale assegnazione dei ruoli, alla componente musicale del testo.

Ne deriva uno spettacolo corposo, un gioco ininterrotto nel movimento e nella recitazione, un carnevale di grande impeto e passioni contrastanti dove la maschera annulla i ruoli sociali e mostra il volto suadente del piacere e dell’anelito alla libertà del piacere, così come dell’amore. Così come un finale che, a occhi contemporanei, inevitabilmente stride.
Il matrimonio interviene, nel più tipico e archetipico lieto fine, a riparare i guai, a mettere ordine, a concludere il carnevale e ristabilire nel contesto normato della famiglia le scaramucce, le fantasie, le scappatelle. È davvero questo, il vincolo matrimoniale, quello cui la giovane Elena aspira ribellandosi al volere paterno e fraterno che la vorrebbe suora e rincorrendo, perfino in abiti maschili, la libertà delle proprie passioni? Sarà l’oggetto conquistato, sia esso il matrimonio o l’ennesimo amante, sufficiente a rimpiazzare il piacere stesso della conquista e del desiderio, il piacere stesso della libertà?

Aphra Behn non può, a questo, rispondere. E forse proprio questa impossibilità rese i suoi testi difficili da accettare pienamente perfino al pensiero femminista. Ma Giuntini, invece, legge tra le righe il senso di questa amarezza e la sottolinea mostrandoci in un’ultima immagine un’Elena rimasta sola mentre altrove già gli altri festeggiano; un’Elena che si osserva, ora di nuovo, o forse per la prima volta, negli abiti ingombranti, spesso scomodi e costringenti, fatti di gabbie e rigidi corpetti, della dama. Lasciando che siamo noi insieme a lei, oggi come ieri, a chiederci se sia davvero questo l’unico finale possibile. Angela Forti
Visto al Teatro Due (Parma)
con (in o.a.) Massimiliano Aceti, Valentina Banci, Cristina Cattellani, Luca Cicolella, Laura Cleri, Rosario D’Aniello, Irene Paloma Jona, Davide Gagliardini, Viviana Giustino, Stefano Guerrieri, Francesco Lanfranchi, Lucia Lavia, Nicola Lorusso, Luca Nucera, Salvo Pappalardo, Giovanna Chiara Pasini, Massimiliano Sbarsi, Francesca Tripaldi
maestro d’armi Renzo Musumeci Greco
costumi Andrea Sorrentino
luci Luca Bronzo
assistente alla regia Francesco Lanfranchi
regia Giacomo Giuntini
Nuova produzione Fondazione Teatro Due